C’era un tempo in cui l’individuo e la sua identità erano privati di ogni forma di autonomia, minacciati dal peso incombente della collettività di cui si era parte.Un individuo di cui emergeva esclusivamente la sfera pubblica, a cui non era consentito percepire bisogni esclusivi e differenti rispetto all’ aggregato di cui faceva parte. Un soggetto che neppure poteva essere definitivo tale, privo di identità, a cui era richiesto un adattamento ed una assimilazione totali al gruppo sociale di appartenenza.
Con il tempo, con l’affermazione dell’individualismo, i singoli soggetti hanno conquistato la propria autonomia, riuscendo a percepire sé stessi, come un qualcosa di differente rispetto agli altri. Macchine pensanti, con capacità decisionali, con competenze specifiche, con idee formulate attraverso un percorso cognitivo senza condizionamento palese. Quell’ individuo che ha finalmente conquistato la propria autonomia, si trova ad affrontare una situazione paradossale: la libertà è così feroce da trasformarsi in fragilità.
Il soggetto non ha più punti di riferimento, è spaesato, subisce l’abbandono di ogni forma di guida (morale e spirituale). Egli sa che da quel momento in poi, tutte le problematiche apparterranno solamente a sé stesso, libero di scegliere il modo migliore per agire. Egli ha la possibilità di affidarsi ad un ventaglio di soluzioni, che rendono però la scelta piuttosto complessa.
Il soggetto, lupo solitario tra i lupi, cerca così di affidarsi ad altri individui, al fine di ridurre quello stato di solitudine e indifferenza in cui è immerso e catapultato. Tutto ciò è reso possibile grazie ai mezzi di comunicazione e informatici.
Nell’ era della tecnologia si rischia di fondere e con-fondere le due sfere, quella pubblica e quella privata, perché tali strumenti vengono utilizzati non come mezzi di informazione, ma di condivisione ossessiva e smisurata del proprio essere, di ciò che si è.
Narcisismo informatico che nasconde insicurezze, bisogno di affermarsi e affermare la propria immagine. Così, il profilo personale diventa etichetta e che creiamo per noi stessi, diventiamo un libro facilmente giudicabile dalla copertina, il più delle volte pieno di pagine vuote e bianche.
Così, la musica che ascoltiamo, le opinioni che esprimiamo riguardo ad un avvenimento socialmente mediaticamente rilevante, definiscono la nostra identità informatica. Io sono in quanto sono iscritto a facebook. La perplessità nasce quando si coinvolge tutto ciò che fa parte del nostro bagaglio intimo, così vediamo sempre più spesso dichiarazioni d’amore online, rapporti sessuali auto-mortalizzati e condivisi con “amici” .
Come scrive Simmel: “Le metropoli sono i veri palcoscenici di questa cultura che eccede e sovrasta ogni elemento personale. Qui, nelle costruzioni e nei luoghi di intrattenimento, nei miracoli e nel comfort di una tecnica che annulla le distanze, nelle formazioni della vita comunitaria e nelle istituzioni visibili dello Stato, si manifesta una pienezza dello spirito cristallizzato e fattosi impersonale così soverchiante che – per così dire – la personalità non può reggere il confronto.“
E’ come se la collettività fosse scomparsa, non esistono più i gruppi, ma si incontrano per strada solo singoli individui disinteressati a tutto se non a sé stessi. La solitudine irrompe nella società post-moderna, come conseguenza e causa del’iperattivismo e della velocità con la quale si riproduce la vita degli individui. Il riparo per sfuggire alla pioggia di indifferenza sembra essere la tecnologia, che ci permette di confidarci e confrontarci con estranei, che spesso sentiamo più vicini di chi ci sta accanto fisicamente. E’ una gabbia di solitudine quella in cui si trova l’uomo della società contemporanea, una gabbia nella quale anche la solidarietà organica di cui ci parla Durkheim si annulla.
E’ un vortice di instabilità tipico della società contemporanea, l’istantaneità che da dietro la veste di cosa buona e giusta nasconde insidie catastrofiche. Ci si chiede: l’istantaneità informatica riduce o aumenta le distanze? Come tutti gli oggetti che coinvolgono la vita sociale e le relazioni sociali, si tratta di un’arma a doppio taglio.
Da dove ha origine il bisogno dell’uomo di ordinare il mondo?
Sin dagli albori, l’esistenza degli esseri umani aveva alla base una forma di organizzazione, seppur limitata. Nelle civiltà pre-moderne, attraverso la classica divisione del lavoro, l’uomo e la donna avevano compiti completamente differenti da svolgere. La donna si occupava dell’accudimento della famiglia e l’uomo di procurare i mezzi per il sostentamento della famiglia stessa. Questo modello di organizzazione sociale si è tramandato fino ai giorni nostri. Tale modello classico di divisione del lavoro e dei ruoli familiari, non risulta essere obsoleto, in quanto ancora oggi esso è radicato nella cultura delle società occidentali sotto forma di convenzione sociale.
La divisione del lavoro, è solo una delle tante forme di semplificazione della realtà sociale. Questo modello è stato adottato anche nelle grandi fabbriche, con l’applicazione del modello Taylorista, con la produzione ottenuta attraverso vari passaggi della catena di montaggio.
Ecco, la catena di montaggio non rappresenta solo un modello produttivo, ma risulta essere la metafora della società moderna. Una grande fabbrica in cui gli operai (individui) svolgono funzioni differenti e specializzate.
Questo tipo di differenziazione segmentaria della società, mostra il bisogno percepito dagli individui di ridurre la complessità sociale, attraverso schemi e categorie specifiche.
Questa pratica di semplificazione sociale della realtà, agisce non solo a livello materiale, ma anche a livello simbolo e quindi cognitivo. La mente umana si trasforma in un grande bagaglio, in cui in ogni scompartimento inseriamo determinati elementi, attuando una selezione sociale.
La pratica della selettività produce rassicurazione, spiana la strada sociale, il cui fine ultimo è quello di riuscire ad individuare ciò che è familiare e ciò che non lo è. Una pratica che sembra avere alcuni tratti in comune con il funzionalismo di Herbert Spencer, secondo il quale la società funziona come un organismo vivente, in cui al suo interno si trovano specifici organi che svolgono funzioni determinate. In entrambi i casi, nel processo della categorizzazione sociale e in quello del funzionalismo, manca il carattere del disordine, tutto è al proprio posto, tutto è in equilibrio.
Allora, perché le componente conflittuale e del disordine, sono ancora presenti?
La categorizzazione non ha prodotto i risultati sperati?
La selezione e la divisione in categorie, avviene attraverso delle percezioni cognitive e in quanto tali possono verificarsi errori.
Il soggetto numero 1 attribuisce determinate caratteristiche al soggetto A incorporandolo, di conseguenza nella categoria ALFA. Il soggetto numero 2 attribuisce differenti caratteristiche al soggetto A incorporandolo nella categoria BETA.
I punti su cui bisogna riflettere sono due:
chi definisce le caratteristiche e chi stabilisce le categorie?
Si tratta di un processo soggettivo e in quanto tale si forma in maniera differente da individuo a individuo. E’ palese quindi la presenza di conflitto, disordine e disparità di percezione del reale.
Come abbiamo visto, questo bisogno non si limita alla vita pratica, ma coinvolge anche quella che potremmo definire come l’organizzazione mentale degli individui.
Così, questa forma di etichettamento esteso, questo labeling mentale, trasforma la realtà sociale in uno scaffale di legno, una libreria in cui ogni pezzo di realtà si trasforma in un libro da inserire nello scompartimento corrispondente. Così, può capitare di definire un libro noioso, senza mai averlo letto.
Quali sono quindi i limiti della categorizzazione?
Essa presenta un’ambivalenza di fondo, se da un lato permette di ridurre la complessità sociale, dall’ altro costruisce schemi pericolosi per la comprensione della realtà sociale.
Forme estremizzate di categorizzazione, possono infatti trasformarsi in schemi mentali che danno vita a stereotipi. Questo processo influenza e condiziona le relazioni sociali. L’insicurezza, la fragilità, il caotico scorrere della vita, fanno emergere nell’uomo il bisogno estremo di ancoraggio e rassicurazione. I soggetti tendono a relazionarsi solamente con coloro che possiedono determinate caratteristiche, o con coloro che fanno parte della propria categoria di appartenenza.
Così, come bambini incontentabili e perennemente insoddisfatti, selezioniamo le persone, peschiamo i pesci che ci piacciono di più, il gusto di gelato che ci fa impazzire.
La vetrina sociale si riduce sempre più in quel supermercato tanto variegato quanto pericoloso. La ricerca del familiare prevale in un mondo estremamente pluralista, in un mondo eccessivamente caotico, in cui per sopravvivere, tendiamo a scegliere la strada che abbiamo percorso sin da bambini, consapevoli che dall’altra parte ci sia una strada in cui la vista è paradisiaca.
Bauman scrive: “La nostra vita è un’opera d’arte – che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no. Per viverla come esige l’arte della vita dobbiamo – come ogni artista, quale che sia la sua arte – porci delle sfide difficili (almeno nel momento in cui ce le poniamo) da contrastare a distanza ravvicinata; dobbiamo scegliere obiettivi che siano (almeno nel momento in cui li scegliamo) ben oltre la nostra portata, e standard di eccellenza irritanti per il loro modo ostinato di stare (almeno per quanto si è visto fino allora) ben al di là di ciò che abbiamo saputo fare o che avremmo la capacità di fare. Dobbiamo tentare l’impossibile. E possiamo solo sperare – senza poterci basare su previsioni affidabili e tanto meno certe – di riuscire prima o poi, con uno sforzo lungo e lancinante, a eguagliare quegli standard e a raggiungere quegli obiettivi, dimostrandoci così all’altezza della sfida.”
Osare, andare oltre, agire senza pregiudizio alcuno. Non aver paura del non familiare, non aver timore dell’ignoto. L’ignoto è la scoperta, l’imprevisto che non si può gestire, l’eccezione che non si può categorizzare, la scoperta che ci può arricchire.
E’ così che bisognerebbe vivere.
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