Analisi organizzativa nella Scuola Neoistituzionalista

Analisi organizzativa nella Scuola Neoistituzionalista

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RUDIMENTI DELL’ANALISI ORGANIZZATIVA NELLA SCUOLA NEOISTITUZIONALISTA

Gli anni Sessanta sono percorsi da espressioni dirette a segnalare l’esistenza di un distinguo sociologico che creasse una disciplina specifica in merito alle organizzazioni. Ma cos’è un’organizzazione? Un’organizzazione è “un costrutto sociale formalmente costituito per il raggiungimento di determinati fini. Rappresenta una forma di azione collettiva reiterata basata su processi di differenziazione e di integrazione tendenzialmente stabili e intenzionali” (Ferrante e Zan, 2012, p. 21). La differenziazione è la suddivisione o specializzazione del lavoro, attribuito ai singoli individui, invece, il processo di integrazione, ne delimita il punto finale, la divisione dei compiti, ma verso un punto comune. Un’organizzazione è efficace quando raggiunge i suoi scopi, ed è efficiente quando i singoli che la compongono risultano adeguatamente motivati. Vi è infatti una gerarchia, per garantire che gli sforzi dei suoi subordinati siano coerenti e garantire l’unitarietà degli sforzi delle diverse articolazioni dell’organizzazione. Vi è un insieme di norme e procedure che definiscono per ciascuna posizione cosa l’individuo deve fare, garantendo uniformità di comportamento. Ne vengono stabiliti i tempi, linee di comportamento che definiscono gli obiettivi immediati e di lungo termine, sistemi di valore specifico, criteri di orientamento, vincoli all’azione, che inducono ciascun attore o unità organizzativa ad adottare quei comportamenti che dovrebbero garantire il raggiungimento dei risultati. Infine vi è la condivisione sistema dei valori, l’insieme di conoscenze, competenze, modalità d’azione apprese con l’esperienza (Ferrante e Zan, 2012, pp. 31-39; Pichierri, 2005, p. 13). Nelle scienze sociali l’organizzazione è un insieme coordinato di risorse umane e materiali, e l’istituzione è l’impianto di regole che rendono possibile tale coordinazione. Secondo il sociologo Alberoni, nell’istituzione prevalgono i rapporti impersonali regolati da sistemi astratti di norme. Nella dinamiche delle istituzioni ci sono due processi: quello in cui le istituzioni nascono, si sviluppano e muoiono per effetto di processi spontanei e quello in cui tali eventi e processi sono imputabili alla volontà specifica di qualche attore. Le risposte di cui l’istituzione ne avvale sono quella rigida, che tende a conservare l’identità e l’integrità dell’istituzione di fronte alla turbolenza interna o esterna e quella flessibile, che modifica la propria struttura interna, ridefinisce confini con l’ambiente e l’identità stessa dell’istituzione. Selznick diede una propria definizione di “istituzione”, dal quale secondo lui, esse impediscono alla società di smembrarsi, fissando tutti quei processi dinamici e perciò legittimano e stabilizzano il formarsi di aggregazioni sociali. Istituzionalizzare, infatti significa “infondere valori” al di là delle esigenze del compito immediato, sul piano della gestione organizzativa, della scelta delle persone, stabilire i legami solidi e alleanze, creare un linguaggio speciale, impegno e dedizione di singoli e gruppi. Istituzionalizzandosi, l’organizzazione sviluppa le proprie caratteristiche distintive, ma non tutte le organizzazioni sono istituzioni o lo divengono. L’organizzazione è agente di istituzionalizzazione, poiché assegna legittimità ad attori organizzativi e a corsi d’azione che, prima, non ne godevano. Incorporandosi in una struttura formale generano delle pressioni isomorfiche, che possono essere capaci di attivare processi di istituzionalizzazione in assenza di specifici progetti istituzionali. L’istituzionalizzazione è basata sulla conformità radicata negli aspetti della quotidianità organizzativa che sono inosservati e dati per scontati (Strati, 1996, pp. 122-124; Bagnasco, Barbagli e Cavalli, 2012, pp. 135-141).

Alla fine degli anni Settanta si afferma un nuovo filone di studi, il neoistituzionalismo, che riprende le tematiche dell’istituzionalismo classico di Weber e Selznick, partendo dall’analisi di varie istituzioni (Stato, associazioni, ordinamenti legislativi e contrattuali) per comprenderne i comportamenti sociali. Rappresenta una delle più importanti correnti sociologiche contemporanee. Pur non rinnegando il proprio legame con il pensiero istituzionalista di Selznick, in cui “la società non può essere definita come un semplice aggregato di soggetti e organizzazioni che agiscono sulla base di criteri di razionalità, seppur limitata, per massimizzare le proprie utilità; occorre spostare la riflessione dalle scelte definite in maniera autonoma dal singolo individuo o dalla singola organizzazione al contesto istituzionale nel quale gli uni e le altre operano”, essa sviluppa in modo autonomo l’analisi relativa al rapporto tra contesto istituzionale e singola organizzazione. Con il Neoistituzionalismo il tema centrale dell’analisi organizzativa non è dato più dalle pressioni esercitate dall’ambiente esterno sull’organizzazione e dai cambiamenti che tale pressione determinava sugli scopi originari di quest’ultima, ma dal processo di azione-retroazione che si determina tra organizzazioni (azioni) e istituzioni (norme) e che fa sì che organizzazioni dello stesso tipo siano molto simili tra loro.  Oggetto principale di indagine non sono più le singole organizzazioni ma popolazioni organizzative, l’insieme di unità, soggetti, organizzazioni che operano in un determinato contesto istituzionale.

Powell e DiMaggio non vogliono vedere la società come un insieme di individui che massimizzano le proprie utilità secondo criteri di razionalità limitata, ma attenzionano i condizionamenti materiali e simbolici che le istituzioni esercitano sui comportamenti umani. Le istituzioni che hanno un’ampia situazione sociale condizionano il comportamento dei singoli e quello delle organizzazioni. In sociologia l’istituzione è un gruppo organizzato che svolge funzioni socialmente rilevanti ed è valutata positivamente da vari settori della società, i quali gli forniscono legittimazione ideologica, sostegno politico e risorse economiche. Nel cambiamento all’interno dell’organizzazione, l’istituzionalizzazione è il processo da cui deriva l’organizzazione, invece, nel mutamento che avviene all’interno dell’ambiente, l’istituzionalizzazione è un processo che avviene all’esterno dell’organizzazione, strutturando forme e soluzioni organizzative, componenti della struttura e ruoli, porta comportamenti individuali o pratiche sociali che si ripetono in modo regolare e costante, ad essere considerate istituzioni, dunque strutture relativamente stabili. Il mutamento organizzativo è il modo in cui le organizzazioni si legittimano ed è il processo rispetto al quale le strutture organizzative assolvono una funzione che ha determinati contenuti simbolici e tecnici. Questa corrente istituzionale ha sottolineato il carattere cerimoniale delle strutture organizzative, mentre ha posto la loro persistenza in relazione con la legittimazione sociale di cui godono piuttosto che con l’efficienza economica o la razionalità tecnica che realizzano. L’istituzionalismo rifiuta di vedere le organizzazioni come aggregato di individui che vogliono massimizzare la propria utilità, ma mette in primo piano i condizionamenti di ordine materiale e simbolico che le istituzioni storiche (Stato, Chiesa, Magistratura, Banche, Università) esercitano sull’orientamento ed il comportamento umano. Selznick è considerato il padre dell’istituzionalismo, di cui il suo pensiero si fonda su tre aspetti: il funzionalismo, in cui le organizzazioni sono viste come organismi che, per sopravvivere, devono soddisfare alcuni bisogni, e anche le disfunzioni hanno una funzione, quindi sono un fenomeno naturale per le organizzazioni; l’enfasi sulle influenze che centri di potere esterni esercitano sulle organizzazioni, di cui gli individui, oltre a perseguire i propri scopi, subiscono pressioni sociali verso obiettivi che possono non coincidere con quelli dell’organizzazione; il pessimismo dell’analisi, influenzato da Michels e Pareto, che si basa sul cambiamento come risultato di logiche degenerative.

Nel pensiero neoistituzionalista è il processo inverso: il soggetto primario è la cornice istituzionale in cui le organizzazioni agiscono, mentre i comportamenti, vicende e strategie, sono esaminate come attribuite ai condizionamenti esercitati da quelle cornici. Rispetto al “vecchio” istituzionalismo vi è un approccio diverso, poiché scompare il pessimismo di principio e c’è una visione più articolata del rapporto organizzazioni-ambiente. Nel sua ricerca su Tennesse Valley Authority, Selznick, analizza come le forze locali esterne condizionano pesantemente le organizzazioni e queste per sopravvivere devono accettare compromessi che le portano lontane dal perseguire determinati scopi per cui sono state costituite. Le organizzazioni non sono libere di agire, ma devono sottostare a pressioni e condizionamenti esercitati da interessi leciti che esistono nell’ambiente esterno. Quindi non c’è la possibilità di creare progetti rinnovativi o riformativi, perché gli strumenti usati per realizzare quei progetti, sono vulnerabili alle pressioni ambientali. Ma vi è anche il preoccupante pensiero di proteggere questi strumenti, che genera una sorta di rinuncia verso quelle parti qualificanti dei progetti per cui gli strumenti erano stati ideati: “Per salvare, perdere la ragione per cui si vive”. Nella sua ricerca, da un lato, quindi, c’è un contesto sociale in cui agiscono le organizzazioni, e dall’altro, la trasformazione della concezione dell’ego, cioè la personalità dei soggetti agenti. Selznick definisce l’entità di cooptazione come quel processo di “assorbimento di nuovi elementi nella direzione o nella struttura che determinano la politica di un’organizzazione, come mezzo per prevenire minacce alla sua stabilità e alla sua esistenza”. Vi è quella formale che provoca crisi di legittimità di un’organizzazione ma ne promuove forme di partecipazione allargata. Quella informale, invece si esprime con l’accettazione di un compromesso con le forze esterne, in quanto soluzione più vantaggiosa per l’organizzazione. Ne viene garantita la sopravvivenza dell’organizzazione, serve per fronteggiare minacce provenienti da centri di potere esterno e vi è la contrapposizione tra pratica e ideologia.

Per DiMaggio e Powell, istituzioni, agenzie, associazioni, formano campi organizzativi, cioè “aggregati di organizzazioni che costituiscono un’area riconosciuta di vita istituzionale che svolgono una continua azione normativa e di controllo sull’attività degli altri enti, in cui i soggetti concorrono a definire determinati standard nella tecnologia, ricerca e sviluppo di nuovi prodotti o gestione delle risorse umane”. Le pressioni esterne, lungi dall’essere un rischio per l’integrità delle organizzazioni, costituiscono quel tessuto istituzionale che legittima le organizzazioni, anche se esse devono conformarsi, quindi esse saranno dei “miti razionali”, potenti regole istituzionali, sotto forma di credenze immaginarie sostenute da un discorso logico. L’efficacia dei miti razionalizzati non è legata a prove scientifiche, bensì a convinzioni diffuse sulla loro appropriatezza. Sono “miti” di razionalità, nel senso che rappresentano modi tipici di agire e pensare a cui viene associata razionalità, in realtà non presentano necessariamente coerenza con la razionalità, dunque non sono miti razionali, ma “razionalizzati”, che generano convinzioni e pratiche gestibili e approvate nel contesto sociale al fine di ricercarne e magari trovarne una dimensione di positività, quindi la tesi di Selznick è rovesciata. Nella concezione dell’ego, si sostiene che il vecchio istituzionalismo si rifacesse alla concezione freud-parsonsiana della formazione della personalità, in cui ogni soggetto nasce con pulsioni libidinali plasmate e controllate all’interno di un processo di interiorizzazione delle norme sociali. Il soggetto agisce in base a orientamenti di valore interiorizzati e il grado della sua approvazione sociale che dipende dal grado di successo ottenuto nel processo di interiorizzazione dei valori prevalenti. La concezione funzionalista dell’ego porta a vedere la cultura come interiorizzata dai soggetti e vedere come le azioni comportino un’aspettativa di gratificazione o privazione. Molti autori abbandonano l’idea della concezione dell’ego, in cui, per Garfinkel l’ordine sociale non nasce da norme e valori ma nel corso d’interazioni quotidiane; per Goffman la società non è regolata da norme e valori ma da un ordine rituale in cui la persona isola se stessa mediante bugie, illusioni; invece Bourdieu vede nel concetto di habitus un sistema d’improvvisazione regolata e regole generative nate dalla interiorizzazione di esperienze passate da “gente simile a noi”. Non si agisce né in base a valori, norme o calcoli, ma è la quotidianità dell’interazione a conferire senso a situazioni specifiche. Da un attore forte, creato su un processo di istituzioni primarie e secondarie (famiglia, scuola, lavoro), si passa ad un attore debole, minimalista, indotto ad agire da routine che gli garantiscono di mantenere un ordine quotidiano. L’azione degli attori nel campo organizzativo crea processi di isomorfismo, cioè l’omogeneizzazione nei criteri giuda e prestazioni interne a quel campo. Tale isomorfismo si distingue in tre tipi: coercitivo, mimetico e normativo. Quindi, uno dei tratti più importanti della scuola neoistituzionalista, è proprio l’evidenzia delle differenze nazionali dello sviluppo economico piuttosto che le uniformità (Pennisi, 1998, pp. 56-57; Pichierri, 2005, pp. 24-26; Powell e DiMaggio, 2000, Int. VII-XXX).

Istituzionalismo e neoistituzionalismo

Nella teoria istituzionalista, uno dei maggior esponenti fu Émile Durkheim che considerava i fatti sociali come “cose”. Nella macro-sociologia, storia sociale e antropologia culturale, le istituzioni sono considerate come le fondamenta della vita sociale e politica. Ma cos’è l’istituzione nei varie terminologie multidisciplinare?

In Sociologia l’istituzione ricopre agenti e attività interrelate quali il diritto, religione, medicina; in Scienza Politica è contornata da descrizioni storiche o minuziosamente dettagliata di unità politiche come enti statali o legislativi; in Storia è lo studio di Costituzioni o Monarchie.

Nell’economia istituzionalista, le istituzioni nascono e perdurano quando i vantaggi che offrono superano i costi di transazione (negoziazione, esecuzione, attuazione) necessari per crearle e conservarle. La transazione come prima unità di analisi, in cui le parti coinvolte in uno scambio vogliono risparmiare sui costi di transazione in un mondo in cui l’informazione è costosa e le persone si comportano in modo opportunistico e la razionalità è limitata. Quindi si vogliono capire le forme di transazione, incertezza e frequenza. Secondo tale teoria, le istituzioni riducono l’incertezza offrendo modelli di scambio economico adattabili ed efficienti. Williamson considera l’opportunismo come l’origine dei costi di transazione, ma Matthews enfatizza i costi cognitivi connessi all’organizzazione e al monitoraggio delle transazioni, anche se vi è onestà tra i partecipanti. North, invece, li definisce come costi generali di mantenimento di un sistema di diritti di proprietà in condizioni di specializzazione crescente e di divisione del lavoro, ma per altri studiosi, le istituzioni posso persistere anche se subottimali per la collettività. Per North le istituzioni sono determinate da fattori storici che limitano il raggio di opzioni in cui i decisori possono scegliere, anche se i risultati saranno ben diversi. Col crescere della specializzazione e complessità degli scambi tra individui, i contratti avranno bisogno di un appoggio di un terzo, soddisfatti dalle istituzioni politiche che specificano e sostengono i diritti di proprietà. Quando il consenso ideologico è alto non vi è opportunismo, ma se esso è basso, sono alti i costi di contrattazione e vi è lo sforzo di cambiare le istituzioni e il consenso rappresenta un sostituto delle regole formali.

L’istituzionalismo applicato alla scienza politica si basa su istituzioni politiche interne (teoria positiva) e alle relazioni internazionali (teoria dei regimi). La teoria positiva vuole spiegare l’origine delle decisioni politiche, il modo in cui le strutture politiche determinano le vicende politiche. Shepsle afferma che le istituzioni politiche sono “accordi presi ex ante relativamente a una struttura di cooperazione che consentono di risparmiare sui costi di transazione, riducono il verificarsi di comportamenti opportunistici e di altri tipi di accordi di agenzie e in questo modo accrescono le prospettive di trarre dei vantaggi dalla cooperazione”, quindi esse conferiscono stabilità alla vita politica.

I regimi internazionali sono accordi multilaterali che nascono dalla cooperazione e vi contribuiscono accordi in cui gli stati regolano i propri rapporti in un dato ambito. Alcune istituzioni sono formali, altri sono aggregati complessi di norme, misure economiche ed enti. I regimi creano, uniformano e riproducono aspettative comuni e stabilizzano l’ordine internazionale. Essi nascono dai costi di comunicazione bassi, monitoraggio e attuazione in confronto ai benefici che ne derivano. Le istituzioni creano gli attori ma contemporaneamente li vincolano e gli interessi emergono nei contesti normativi e storici. I regimi internazionali sono istituzioni durature che modellano e vincolano i rapporti fra gli Stati e il suo svilupparsi, esaurirsi è qualcosa di fortemente rilevante.

Tra le varie terminologie date all’istituzione, la nuova economia istituzionalista afferma che le istituzioni sono “regolarità che si verificano nelle interazioni ripetitive, convenzioni e norme che offrono agli individui un insieme di incentivi e disincentivi”, sono strutture di regolamentazione, accordi sociali creati per minimizzare i costi di transazione. Secondo Young l’istituzione è “un insieme di pratiche riconosciute, costituite da ruoli facilmente identificabili e sommate a norme o convenzioni che governano i rapporti tra coloro che ricoprono tali ruoli”. Per il neoistituzionalismo studiato nella teoria economica e scelta politica, l’istituzione è il prodotto dell’intenzione umana, in quello studiato nella teoria dei regimi e dell’organizzazione, le istituzioni sono prodotte dall’attività umana ma non con scelte o pratiche consapevoli. Il neoistituzionalismo rifiuta l’agire dell’attore razionale, attenziona le istituzioni come variabili indipendenti, processi cognitivi e culturali. I sociologi considerano i comportamenti come potenzialmente istituzionalizzabili in un raggio territoriale, che va dai rapporti esistenti all’interno di una singola famiglia ai miti di razionalità e progresso del sistema mondiale. Il neoistituzionalismo si concentra su strutture e processi organizzativi che caratterizzano il settore industriale a livello nazionale o internazionale. Nell’istituzionalismo gli individui non scelgono liberamente tra istituzioni, convenzioni e norme. I teorici dell’organizzazione usano modelli di aspettative date per scontate, facendo vedere che gli attori legano alcune condotte a certe situazioni grazie a determinate regole, assorbite con la socializzazione, educazione, apprendimento sul campo. Le istituzioni non vincolano solo le opzioni, ma stabiliscono criteri attraverso i quali le persone scoprono le proprie preferenze.

La nascita del neoistituzionalismo si può ricondurre al 1977, quando Meyer pubblicò “The effects of Education a san Institution e Institutionalized Organizations. Formal Structure as Myth and Ceremony”, in cui introduce i principali concetti del neoistituzionalismo. L’istituzionalismo e il neoistituzionalismo sono scettici sui modelli organizzativi fondati sull’attore razionale e si guarda all’istituzionalizzazione come un processo che dipende dallo Stato, in cui le organizzazioni sono meno razionali strumentalmente e ne limitano le opzioni. Viene sottolineato il ruolo della cultura nella configurazione della realtà organizzativa. L’istituzionalizzazione vincola la razionalità organizzativa e i vecchi approcci analizzano il consolidarsi degli interessi dentro le organizzazioni tramite scambi e alleanze politiche, i nuovi invece, enfatizzano i rapporti tra stabilità, legittimità e il potere del patrimonio di conoscenze non spesso articolate esplicitamente. Il vecchio istituzionalismo pone in luce l’interazione informale, per mostrare come le strutture informali sottoponessero a deviazioni e vincoli, vari aspetti della struttura formale e dimostrare la possibilità di un sovvertimento. Il neoistituzionalismo inserisce l’irrazionalità nella struttura formale, dandole spazi e procedure operative alle influenze interorganizzative, al conformismo e al potere persuasivo dell’ambiente culturale. Altra differenza è il concetto di ambiente. Il nuovo non si concentra su ambiti legati a un luogo, campo, settore, ma essi penetrano nell’organizzazione creando una visuale in cui gli attori vedono il mondo e le varie strutture, azione e pensiero. Il vecchio considera il processo di istituzionalizzazione come luogo chiave di tale processo, ma per il nuovo è qualcosa che si verifica nel settore, società, qualcosa di interorganizzativo che avviene all’interno. Sono le forme organizzative ad essere istituzionalizzate. Nel vecchio l’organizzazione è un tutto organico, nel nuovo è un ordinamento in cui elementi standardizzati sono connessi tra loro in modo superficiale. Il nuovo enfatizza l’omogeneità delle organizzazioni e ne evidenzia la stabilità delle componenti istituzionalizzate. Per il vecchio, il mutamento è una componente endemica dell’evoluzione adattiva dell’organizzazione all’ambiente locale di appartenenza. Per i vecchi istituzionalismi, le forme cognitive erano rappresentate da valori, norme e predisposizioni, in cui le organizzazioni diventano entità istituzionalizzate, quando erano avvolte di valori e scopi. I nuovi, giunti nell’istituzione, subivano un processo di socializzazione che portava all’interiorizzazione vissuta dei valori organizzativi. Il nuovo si slega da questo riferimento morale, in cui l’istituzionalizzazione è un processo cognitivo. Le obbligazioni normative sono fatti sociali, non ci sono norme o valori, ma copioni, regole e classificazioni date per scontate creano le istituzioni, astratte di micro-livello, “prescrizioni razionalizzate ed impersonali”. I nuovi rifiutano la socializzazione, ma si riferiscono a teorie psicologiche più fredde, in cui schemi e copioni conducono i decisori a resistere alla nascita di nuove prove.

In una delle fasi dell’istituzionalismo, ci ricolleghiamo a Parsons conferendo grande enfasi all’interiorizzazione, adesione e infusione di valore negli oggetti; la relazione tra genitore e figlio funge da prototipo per spiegare l’interazione sociale. Per l’integrazione, i ruoli sono istituzionalizzati, quando sono “congrui con i modelli culturali prevalenti e sono organizzati intorno ad aspettative di conformità a modelli di orientamento dei valori moralmente sanzionati e condivisi dai membri della collettività”. Parsons descrive la cultura come costituita da un piano cognitivo (idee/credenze), catectico (affettiva/espressiva) e valutativo (orientamento di valori). Questi aspetti possono essere un oggetto di orientamento o come costitutivo degli orientamenti all’azione. Parsons mette in azione tre determinati modi di agire:

sostituisce il modo di vedere la cultura come un oggetto di orientamento che esiste indipendentemente dall’attore con un’idea di cultura come un elemento interiorizzato nel sistema della personalità, bloccandone così i fini desiderati;
la modalità costitutiva della cultura, passa dagli aspetti cognitivi a quelli valutativi, centralizzando l’infusione di aspettative istituzionalizzate rispetto al ruolo;
l’aspetto cognitivo e catectico sono in una dimensione di ibrido, per quanto riguarda l’azione che include aspettative concernenti le gratificazioni o deprivazioni.

L’azione rimane razionale, cioè include la ricerca quasi intenzionale di una gratificazione da parte di esseri umani ragionanti che soppesano criteri valutativi complessi e sfaccettati. Quella di Parsons rimane una soluzione incompleta per altri tre motivi: in primo luogo, si concentra su aspetti valutativi della cultura e dell’orientamento all’azione, fino a escludere quelli cognitivi e catectici; in secondo luogo tratta implicitamente l’azione come il prodotto di un agente che pensa in modo discorsivo; infine, ha restrizioni vincolanti per la coerenza intra e intersoggettiva più di quanto la psicologia freudiana ne abbia mostrato la necessità.

Il neoistituzionalismo si fonda, al micro-livello, sull’azione pratica cioè quei principi orientativi in cui sono riflessi due aspetti: il primo, il nuovo lavoro della teoria sociale attribuisce al lato cognitivo dell’azione, una rilevanza maggiore rispetto a quella che le era stata riconosciuta da Parsons, ed è stato influenzato dalla rivoluzione cognitiva in campo psicologico; il secondo, tale lavoro si distanzia dal ruolo razionale e di calcolo dell’attività cognitiva di Parsons, ma attenziona i processi e schemi preconsci, quando fanno parte del comportamento quotidiano e dato per scontato (attività pratica) e perché la svolta cognitiva ispira l’emergere di una teoria dell’azione pratica che definisce l’attività cognitiva diversamente da quanto fatto da Parsons, ma contemporaneamente le affida una rilevanza maggiore. La coscienza pratica ha avuto i contributi di Goffman che, rifacendosi a Durkheim, nella teoria della società mette in evidenza l’ordine come oggetto del suo studio all’ordine dello scolaro della teoria parsonsiana, in cui le persone devono lavorare duramente per ottenere credito, e l’inganno ne costituisce l’oggetto di sanzione. Oltre a Goffman, vi è anche Collins in cui ne deduce che ciò che le persone chiamano “struttura sociale”, è data da canali

di interazione rituale, in cui i soggetti, investono risorse culturali ed energie emotive in scontri rituali che riflettono una situazione di gerarchie, se le tali risorse sono impari, e di solidarietà, se sono pari. La società non è qualcosa tenuta insieme da un consenso morale che poi ne crea una dimensione funzionale, ma un’entità spaccata a vari livelli da una solidarietà emotiva che nasce dal senso di comunanza o antagonismo generato da interazioni ripetute, e non dall’orientamento valutativo degli attori.

Per la teoria sociale è importante la teoria dell’habitus formulata da Pierre Bourdieu, in cui esso è una costruzione analitica, un sistema d’improvvisazione moderata o regole generative, che rappresentano l’interiorizzazione cognitiva, affettiva e valutativa delle esperienze passate, fatta da attori, basandosi su tipizzazioni condivise delle categorie sociali, vissute come “gente simile a noi”, quindi un’istituzione può essere avviata e diventare attiva solo se “come un indumento o una cosa, trova qualcuno che abbia un interesse nei suoi confronti, che vi si trovi sufficientemente a proprio agio per accettarla”.

Sono le forme culturali, tipizzazioni e modelli cognitivi che portano i neoistituzionalisti ad identificare l’ambiente nei settori industriali, professioni, invece che nelle comunità locali studiate dai vecchi istituzionalisti, e vedere l’istituzionalizzazione come diffusione di regole e strutture standard, e non come una modalità di uso adeguato delle organizzazioni in specifici ambienti.

DiMaggio e Powell impiegano immaginari più strutturali, in quanto evidenziano la rilevanza delle reti orizzontali che dirigono l’attenzione e contribuiscono a diffondere delle tipizzazioni condivise di forme organizzative (Powell e DiMaggio, 2000, pp. 3-55; Bonazzi, 2008, p. 470-472).

Le organizzazioni istituzionalizzate
(J.W. Meyer e B. Rowan)

Meyer e Rowan esaminano la conformazione delle organizzazioni all’ambiente istituzionale circostante. Secondo gli autori, a causa del processo di isomorfismo, le organizzazioni si creano delle strutture formali (mito e cerimonia). Le organizzazioni formali sono attività coordinate e controllate, nascenti quando il lavoro è all’interno di reti complesse di relazioni tecniche e di scambi ai fini del sistema. Ma nelle società moderne le strutture formali nascono in contesti fortemente istituzionalizzati. La struttura formale di un’organizzazione è il modo più efficace di coordinare e controllare le attività lavorative che si sviluppano al suo interno. Le politiche, professioni, si creano insieme a prodotti e servizi che producono razionalmente, ciò fa nascere nuove organizzazioni e quelle esistenti incorporano nuove pratiche e nuove procedure, cioè nuovi comportamenti. Le organizzazioni che agiscono così, aumentano la loro legittimità e sopravvivono a lungo indipendentemente dalla loro efficacia nelle norme di

comportamento e procedure acquisite. La conformità a regole istituzionalizzate entra in conflitto con l’efficienza, coordinamento e controllo delle attività che ne vogliono creare l’efficienza, ostacolano il conformarsi del cerimoniale di un’organizzazione, sacrificandone le basi della legittimità. Le organizzazioni per conservare la conformità cerimoniale, proteggono le strutture formali dalle incertezze tecniche, indebolendo i legami tra le varie unità e separandone le strutture formali dalle reali attività di lavoro.

Gli elementi di una struttura formale solo legati a politiche e obiettivi espliciti che ne esprimono una teoria razionale circa il modo in cui le attività devono adattarsi l’una a l’altra. Secondo la teoria convenzionale, la struttura formale razionale è il modo più efficace di controllare le reti relazionali complesse che le moderne attività tecniche o lavorative comportano, infatti uno dei problemi della teoria dell’organizzazione è quello di descrivere le condizioni che danno origine alla struttura formale razionalizzata. Analisi vicina a quella di Weber in cui il mercato premia la razionalità e il coordinamento. Quando i mercati si espandono, le reti relazionali diventano più complesse, differenziate, e le organizzazioni considerano un numero maggiore di interdipendenze all’interno e all’esterno dell’organizzazione. Quando le reti relazionali nello scambio economico e politico diventano molto complesse, le strutture burocratiche sono considerate come il mezzo più efficace e razionale per standardizzare e controllare le sottounità. Coordinamento e controllo sono le dimensioni critiche in cui le organizzazioni formali hanno fondato il proprio successo nel mondo moderno. Il coordinamento avviene meccanicamente, le regole e le procedure vengono seguite e le attività reali si conformano alle prescrizioni della struttura formale. Ma molti ricercatori pensano che gli elementi strutturali sono legati l’uno all’altro e alle attività in modo approssimato, le regole spesso non vanno rispettate, decisioni non messe in atto, incertezze e tecnologie non sempre efficienti. Non è possibile stabilire la nascite delle organizzazioni formali solo su supposizioni che le strutture formali possano realmente controllare e coordinare il lavoro.

La legittimità all’interno di un apparato burocratico presuppone l’esistenza di norme di razionalità, in cui ve se ne attribuisce un ruolo causale, in quanto si ritiene che esse siano state internate nelle società e nelle personalità moderne come valori generali, ipotizzandone una facilitazione all’interno dell’organizzazione formale. Tali norme esistono nelle regole, concezioni e significati attribuiti alle strutture sociali istituzionalizzate. Le posizioni, le politiche sono poste dall’opinione pubblica, dal giudizio di chi s’interessa di tale organizzazione, dalle conoscenze attraverso il sistema scolastico o prestigio sociale. I miti razionali che creano la struttura organizzativa formale, sono razionali e impersonali che identificano scopi sociali e specificano quei mezzi adeguati per perseguire determinati scopi

tecnici. Sono altamente istituzionalizzati e sottratti alla discrezionalità del singolo partecipante od organizzazione, quindi dati per scontati in quanto legittimi. Le professioni sono razionalizzate poiché si ritiene che controllino tecniche impersonali piuttosto che morali e vi sono, soprattutto, deleghe di specifica attività a determinate professioni ritenute idonee che ne diventano aspettative sociali e un obbligo legale indipendentemente alla sua efficacia. Le tecnologie sono istituzionalizzate e diventano miti vincolanti per l’organizzazione. Le procedure tecniche di produzione, contabilità, selezione del personale, elaborazione dati diventano mezzi scontati per raggiungere un fine organizzativo e definiscono un’organizzazione adeguata, razionale e moderna rivelandone la propria responsabilità e, frantumandone, accuse di negligenza. Lo sviluppo delle strutture istituzionali razionalizzate fa sì che le organizzazioni formali diventino più comuni ed elaborate, miti che rendono tali organizzazioni più facili e necessarie. Le pressioni istituzionali alla conformità, hanno come risultato l’isomorfismo tra organizzazione e ambiente. Nella società moderna, l’isomorfismo nasce dalla tendenza delle organizzazioni ad adattarsi all’ambiente esterno ma anche che è lo stesso ambiente ad operare affinché nascano nuove organizzazioni che vogliono perseguire fini desiderati dall’ambiente e che considera produttivi. In vari campi dell’attività lavorativa nascono regole istituzionali razionalizzate, le organizzazioni formali prendono vita e si espandono mettendone al loro interno regole come elementi strutturali. Quando i miti istituzionalizzati definiscono nuovi campi di attività razionalizzata, in questi campi nascono organizzazioni formali e quando miti istituzionali razionalizzanti nascono in campi di attività esistenti, le organizzazioni esistenti sviluppano le loro strutture formali in modo da diventare isomorfiche. I miti indicano sia i fini e sia i mezzi adatti per raggiungerli. L’affermarsi di un mito porta a creare nuovi campi a dimensione razionalizzata, dove nuove organizzazioni nascono per soddisfare i bisogni alimentati da quel mito. Più una società è modernizzata, più estesa è la struttura istituzionale razionalizzata in certi campi e maggiore è il numero di settori che comprendono istituzioni razionalizzate.

Da qui se ne evince che le organizzazioni formali hanno maggiori probabilità di emergere nelle società più modernizzate anche se rimane costante la complessità delle reti di relazione, e oltre a ciò, le organizzazioni formali all’interno di un’attività avranno strutture più elaborate nelle società più moderne anche quando rimane costante la complessità delle reti relazionali.

Ciò che provoca isomorfismo è che le organizzazioni formali si adattano al loro ambiente tramite interdipendenze tecniche e di scambio. Deducendone dalla teoria parsonsiana, le organizzazioni riflettono strutturalmente la realtà socialmente creata, quindi condizionate dal loro ambiente istituzionale, e vedono se stesse come istituzioni. Le organizzazioni tendono a scomparire in quanto unità distinte e circoscritte. Le teorie istituzionali invece di vedere le

organizzazioni come unità serventi nello scambio con l’ambiente circostante, le vede come “drammatiche realizzazioni di miti razionalizzati che pervadono le società moderne”.

I miti razionalizzati sono generati da tre specifici processi, tra cui: l’elaborazione di reti relazionali complesse, in cui alcuni miti razionalizzati sono molto generalizzati, altri, invece, specificano elementi strutturali. Le leggi, sistemi educativi, opinione pubblica ne creano però necessità e vantaggi che le organizzazioni possono utilizzare per incorporare nuove strutture; il livello di collettività organizzativa dell’ambiente, in cui i miti hanno una legittimità fondata sull’efficacia razionale, altri su mandati legali, in cui le società che tramite la creazione della Nazione e la formazione dello Stato, hanno sviluppato un ordine razionale-legale sono inclini a conferire un’autorità legale collettiva a istituzioni che legittimano specifiche strutture organizzative. Più forte è l’ordine razionale-legale, maggiore è la misura in cui le regole, procedure e il personale diventino necessità istituzionali. Nascono nuove organizzazioni formali e quelle esistenti acquistano nuovi elementi strutturali; sforzi direttivi delle organizzazioni locali, in cui le organizzazioni plasmano spesso il contesto istituzionale e cercano di avere uno statuto di autorità collettive e di istituzionalizzare i loro obiettivi e strutture secondo le regole di tali autorità. L’atteggiamento delle organizzazioni, oscilla in due panoramiche: in primo luogo, le organizzazioni con un grande potere costringono le reti relazionali ad adattarsi alla loro struttura e necessità, e, in secondo luogo, fanno sì che obiettivi e procedure vengano incorporati all’interno della società come regole istituzionali. L’isomorfismo ambientale porta le organizzazioni ad incorporare certi elementi in quanto legittimati dall’esterno invece che in base alla loro efficacia, si avvalgono di valutazioni esterne o cerimoniali per definirne valori strutturali e la dipendenza da istituzioni consolidate all’esterno, riducendone il disordine e mantenendone la stabilità. Inserendo strutture formali legittimate all’esterno, si aumenta l’impegno dei partecipanti interni e quello degli interessati esterni. Le valutazioni esterne possono consentire all’organizzazione di aver successo nella dimensione sociale e farne evitare il fallimento. Inserire elementi istituzionalizzati può essere considerata una giustificazione delle proprie attività che protegge l’organizzazione da una condotta inadeguata, cioè l’organizzazione diventa legittima e questa legittimità viene usata per avere maggiori appoggi e ne assicura la sopravvivenza. Un altro punto importante dell’isomorfismo è il mutamento del linguaggio dell’organizzazione, fornendone spiegazioni razionali e legittime, in modo che le organizzazioni siano orientate verso fini definiti collettivamente affidati. Ma ci possono essere anche casi in cui le organizzazioni che nascondono elementi strutturali legittimati nell’ambiente o ne creano strutture atipiche, non daranno giustificazioni accettabili e legittimate dalle loro attività (es. norme e avvisi relativi al “non fumare” sono necessari per evitare accuse di negligenza e la conseguenza

ell’illegittimità). Non inserire gli elementi strutturali adeguati, è segno di negligenza e irrazionalità, ma contemporaneamente, tali miti offrono alle organizzazioni l’opportunità di espandersi. I criteri rituali di valore e le funzioni produttive che ne derivano, servono all’organizzazione, poiché le legittimano nei confronti dei partecipanti interni, pubblico e anche dello Stato. Incorporare strutture di alto livello, porta l’organizzazione ad avere maggiore duratura e, di conseguenza, maggiore credibilità.

Vi è un altro fattore che ne definisce le peculiarità dell’istituzionalizzazione organizzativa, ed è la stabilizzazione, in quanto lo sviluppo di un ambiente istituzionale stabilizza relazioni esterne ed interne all’organizzazione. Una stabilizzazione si crea quando un’organizzazione diventa parte di un sistema collettivo più ampio. Gli ambienti controllati istituzionalmente proteggono le organizzazioni da turbolenze e ripercussioni. La qualità data per scontata delle regole istituzionali rende improbabili gravi instabilità nei prodotti, nelle tecniche o nelle politiche. La legittimità delle organizzazioni che accettano di essere sottounità della società più ampia, le protegge da sanzioni quando vi sono mutamenti nella prestazione tecnica. Il successo di un organizzazione dipende da fattori diversi di coordinamento e controllo delle attività produttive. Ciò, ovviamente, è dipeso da processi ambientali e capacità di leadership organizzativa. Tale leadership deve essere capace di capire i mutamenti delle tendenze ed i programmi governativi. Ciò, però, è possibile solo in un ambiente con una struttura altamente istituzionalizzata, per cui le organizzazioni che incorporano nelle loro strutture formali elementi razionalizzati socialmente legittimati, massimizzano la loro legittimità e aumentano le loro risorse e la loro capacità di sopravvivenza. Le organizzazioni sopravvivono se le strutture dello Stato diventeranno elaborate e se le organizzazioni si adegueranno a regole istituzionalizzate, al punto da esserne assorbite. Ma, in eguale modalità, le organizzazioni possono fallire quando le prescrizioni dei miti istituzionalizzanti non vengono rispettate, indipendentemente dall’efficienza tecnica. Le organizzazioni non dispongono di criteri intrinseci di efficienza e sopravvivono grazie alla capacità di adeguarsi alle esigenze cerimoniali prescritte dagli ambienti istituzionali. Ma vi sono altre organizzazioni che hanno criteri intrinseci che devono essere rispettati e sopravvivono grazie alla capacità di gestire in modo autonomo le proprie reti relazionali e di attività.

Tutte le organizzazioni fanno parte del contesto relazionale ed istituzionale, quindi hanno una funzione di coordinamento e supervisione delle attività ma anche di ottenimento di un resoconto. Il sopravvivere di alcune organizzazioni dipende dalla capacità di gestire le esigenze di relazioni interne ed esterne, mentre quella di altre organizzazioni, dipende dalle esigenze cerimoniali di ambienti altamente istituzionalizzati.

Le organizzazioni istituzionalizzate

(J.W. Meyer e B. Rowan)

Meyer e Rowan esaminano la conformazione delle organizzazioni all’ambiente istituzionale circostante. Secondo gli autori, a causa del processo di isomorfismo, le organizzazioni si creano delle strutture formali (mito e cerimonia). Le organizzazioni formali sono attività coordinate e controllate, nascenti quando il lavoro è all’interno di reti complesse di relazioni tecniche e di scambi ai fini del sistema. Ma nelle società moderne le strutture formali nascono in contesti fortemente istituzionalizzati. La struttura formale di un’organizzazione è il modo più efficace di coordinare e controllare le attività lavorative che si sviluppano al suo interno. Le politiche, professioni, si creano insieme a prodotti e servizi che producono razionalmente, ciò fa nascere nuove organizzazioni e quelle esistenti incorporano nuove pratiche e nuove procedure, cioè nuovi comportamenti. Le organizzazioni che agiscono così, aumentano la loro legittimità e sopravvivono a lungo indipendentemente dalla loro efficacia nelle norme di comportamento e procedure acquisite. La conformità a regole istituzionalizzate entra in conflitto con l’efficienza, coordinamento e controllo delle attività che ne vogliono creare l’efficienza, ostacolano il conformarsi del cerimoniale di un’organizzazione, sacrificandone le basi della legittimità. Le organizzazioni per conservare la conformità cerimoniale, proteggono le strutture formali dalle incertezze tecniche, indebolendo i legami tra le varie unità e separandone le strutture formali dalle reali attività di lavoro.

Gli elementi di una struttura formale solo legati a politiche e obiettivi espliciti che ne esprimono una teoria razionale circa il modo in cui le attività devono adattarsi l’una a l’altra. Secondo la teoria convenzionale, la struttura formale razionale è il modo più efficace di controllare le reti relazionali complesse che le moderne attività tecniche o lavorative comportano, infatti uno dei problemi della teoria dell’organizzazione è quello di descrivere le condizioni che danno origine alla struttura formale razionalizzata. Analisi vicina a quella di Weber in cui il mercato premia la razionalità e il coordinamento. Quando i mercati si espandono, le reti relazionali diventano più complesse, differenziate, e le organizzazioni considerano un numero maggiore di interdipendenze all’interno e all’esterno dell’organizzazione. Quando le reti relazionali nello scambio economico e politico diventano molto complesse, le strutture burocratiche sono considerate come il mezzo più efficace e razionale per standardizzare e controllare le sottounità. Coordinamento e controllo sono le dimensioni critiche in cui le organizzazioni formali hanno fondato il proprio successo nel mondo moderno. Il coordinamento avviene meccanicamente, le regole e le procedure vengono seguite e le attività reali si conformano alle prescrizioni della struttura formale. Ma molti ricercatori pensano che gli elementi strutturali sono legati l’uno all’altro e alle attività in modo approssimato, le regole spesso non vanno rispettate, decisioni non messe in atto, incertezze e tecnologie non sempre efficienti. Non è possibile stabilire la nascite delle organizzazioni formali solo su supposizioni che le strutture formali possano realmente controllare e coordinare il lavoro.

La legittimità all’interno di un apparato burocratico presuppone l’esistenza di norme di razionalità, in cui ve se ne attribuisce un ruolo causale, in quanto si ritiene che esse siano state internate nelle società e nelle personalità moderne come valori generali, ipotizzandone una facilitazione all’interno dell’organizzazione formale. Tali norme esistono nelle regole, concezioni e significati attribuiti alle strutture sociali istituzionalizzate. Le posizioni, le politiche sono poste dall’opinione pubblica, dal giudizio di chi s’interessa di tale organizzazione, dalle conoscenze attraverso il sistema scolastico o prestigio sociale. I miti razionali che creano la struttura organizzativa formale, sono razionali e impersonali che identificano scopi sociali e specificano quei mezzi adeguati per perseguire determinati scopi tecnici. Sono altamente istituzionalizzati e sottratti alla discrezionalità del singolo partecipante od organizzazione, quindi dati per scontati in quanto legittimi. Le professioni sono razionalizzate poiché si ritiene che controllino tecniche impersonali piuttosto che morali e vi sono, soprattutto, deleghe di specifica attività a determinate professioni ritenute idonee che ne diventano aspettative sociali e un obbligo legale indipendentemente alla sua efficacia. Le tecnologie sono istituzionalizzate e diventano miti vincolanti per l’organizzazione. Le procedure tecniche di produzione, contabilità, selezione del personale, elaborazione dati diventano mezzi scontati per raggiungere un fine organizzativo e definiscono un’organizzazione adeguata, razionale e moderna rivelandone la propria responsabilità e, frantumandone, accuse di negligenza. Lo sviluppo delle strutture istituzionali razionalizzate fa sì che le organizzazioni formali diventino più comuni ed elaborate, miti che rendono tali organizzazioni più facili e necessarie. Le pressioni istituzionali alla conformità, hanno come risultato l’isomorfismo tra organizzazione e ambiente. Nella società moderna, l’isomorfismo nasce dalla tendenza delle organizzazioni ad adattarsi all’ambiente esterno ma anche che è lo stesso ambiente ad operare affinché nascano nuove organizzazioni che vogliono perseguire fini desiderati dall’ambiente e che considera produttivi. In vari campi dell’attività lavorativa nascono regole istituzionali razionalizzate, le organizzazioni formali prendono vita e si espandono mettendone al loro interno regole come elementi strutturali. Quando i miti istituzionalizzati definiscono nuovi campi di attività razionalizzata, in questi campi nascono organizzazioni formali e quando miti istituzionali razionalizzanti nascono in campi di attività esistenti, le organizzazioni esistenti sviluppano le loro strutture formali in modo da diventare isomorfiche. I miti indicano sia i fini e sia i mezzi adatti per raggiungerli. L’affermarsi di un mito porta a creare nuovi campi a dimensione razionalizzata, dove nuove organizzazioni nascono per soddisfare i bisogni alimentati da quel mito. Più una società è modernizzata, più estesa è la struttura istituzionale razionalizzata in certi campi e maggiore è il numero di settori che comprendono istituzioni razionalizzate.

Da qui se ne evince che le organizzazioni formali hanno maggiori probabilità di emergere nelle società più modernizzate anche se rimane costante la complessità delle reti di relazione, e oltre a ciò, le organizzazioni formali all’interno di un’attività avranno strutture più elaborate nelle società più moderne anche quando rimane costante la complessità delle reti relazionali.

Ciò che provoca isomorfismo è che le organizzazioni formali si adattano al loro ambiente tramite interdipendenze tecniche e di scambio. Deducendone dalla teoria parsonsiana, le organizzazioni riflettono strutturalmente la realtà socialmente creata, quindi condizionate dal loro ambiente istituzionale, e vedono se stesse come istituzioni. Le organizzazioni tendono a scomparire in quanto unità distinte e circoscritte. Le teorie istituzionali invece di vedere le organizzazioni come unità serventi nello scambio con l’ambiente circostante, le vede come “drammatiche realizzazioni di miti razionalizzati che pervadono le società moderne”.

I miti razionalizzati sono generati da tre specifici processi, tra cui: l’elaborazione di reti relazionali complesse, in cui alcuni miti razionalizzati sono molto generalizzati, altri, invece, specificano elementi strutturali. Le leggi, sistemi educativi, opinione pubblica ne creano però necessità e vantaggi che le organizzazioni possono utilizzare per incorporare nuove strutture; il livello di collettività organizzativa dell’ambiente, in cui i miti hanno una legittimità fondata sull’efficacia razionale, altri su mandati legali, in cui le società che tramite la creazione della Nazione e la formazione dello Stato, hanno sviluppato un ordine razionale-legale sono inclini a conferire un’autorità legale collettiva a istituzioni che legittimano specifiche strutture organizzative. Più forte è l’ordine razionale-legale, maggiore è la misura in cui le regole, procedure e il personale diventino necessità istituzionali. Nascono nuove organizzazioni formali e quelle esistenti acquistano nuovi elementi strutturali; sforzi direttivi delle organizzazioni locali, in cui le organizzazioni plasmano spesso il contesto istituzionale e cercano di avere uno statuto di autorità collettive e di istituzionalizzare i loro obiettivi e strutture secondo le regole di tali autorità. L’atteggiamento delle organizzazioni, oscilla in due panoramiche: in primo luogo, le organizzazioni con un grande potere costringono le reti relazionali ad adattarsi alla loro struttura e necessità, e, in secondo luogo, fanno sì che obiettivi e procedure vengano incorporati all’interno della società come regole istituzionali. L’isomorfismo ambientale porta le organizzazioni ad incorporare certi elementi in quanto legittimati dall’esterno invece che in base alla loro efficacia, si avvalgono di valutazioni esterne o cerimoniali per definirne valori strutturali e la dipendenza da istituzioni consolidate all’esterno, riducendone il disordine e mantenendone la stabilità. Inserendo strutture formali legittimate all’esterno, si aumenta l’impegno dei partecipanti interni e quello degli interessati esterni. Le valutazioni esterne possono consentire all’organizzazione di aver successo nella dimensione sociale e farne evitare il fallimento. Inserire elementi istituzionalizzati può essere considerata una giustificazione delle proprie attività che protegge l’organizzazione da una condotta inadeguata, cioè l’organizzazione diventa legittima e questa legittimità viene usata per avere maggiori appoggi e ne assicura la sopravvivenza. Un altro punto importante dell’isomorfismo è il mutamento del linguaggio dell’organizzazione, fornendone spiegazioni razionali e legittime, in modo che le organizzazioni siano orientate verso fini definiti collettivamente affidati. Ma ci possono essere anche casi in cui le organizzazioni che nascondono elementi strutturali legittimati nell’ambiente o ne creano strutture atipiche, non daranno giustificazioni accettabili e legittimate dalle loro attività (es. norme e avvisi relativi al “non fumare” sono necessari per evitare accuse di negligenza e la conseguenza dell’illegittimità). Non inserire gli elementi strutturali adeguati, è segno di negligenza e irrazionalità, ma contemporaneamente, tali miti offrono alle organizzazioni l’opportunità di espandersi. I criteri rituali di valore e le funzioni produttive che ne derivano, servono all’organizzazione, poiché le legittimano nei confronti dei partecipanti interni, pubblico e anche dello Stato. Incorporare strutture di alto livello, porta l’organizzazione ad avere maggiore duratura e, di conseguenza, maggiore credibilità.

Vi è un altro fattore che ne definisce le peculiarità dell’istituzionalizzazione organizzativa, ed è la stabilizzazione, in quanto lo sviluppo di un ambiente istituzionale stabilizza relazioni esterne ed interne all’organizzazione. Una stabilizzazione si crea quando un’organizzazione diventa parte di un sistema collettivo più ampio. Gli ambienti controllati istituzionalmente proteggono le organizzazioni da turbolenze e ripercussioni. La qualità data per scontata delle regole istituzionali rende improbabili gravi instabilità nei prodotti, nelle tecniche o nelle politiche. La legittimità delle organizzazioni che accettano di essere sottounità della società più ampia, le protegge da sanzioni quando vi sono mutamenti nella prestazione tecnica. Il successo di un organizzazione dipende da fattori diversi di coordinamento e controllo delle attività produttive. Ciò, ovviamente, è dipeso da processi ambientali e capacità di leadership organizzativa. Tale leadership deve essere capace di capire i mutamenti delle tendenze ed i programmi governativi. Ciò, però, è possibile solo in un ambiente con una struttura altamente istituzionalizzata, per cui le organizzazioni che incorporano nelle loro strutture formali elementi razionalizzati socialmente legittimati, massimizzano la loro legittimità e aumentano le loro risorse e la loro capacità di sopravvivenza. Le organizzazioni sopravvivono se le strutture dello Stato diventeranno elaborate e se le organizzazioni si adegueranno a regole istituzionalizzate, al punto da esserne assorbite. Ma, in eguale modalità, le organizzazioni possono fallire quando le prescrizioni dei miti istituzionalizzanti non vengono rispettate, indipendentemente dall’efficienza tecnica. Le organizzazioni non dispongono di criteri intrinseci di efficienza e sopravvivono grazie alla capacità di adeguarsi alle esigenze cerimoniali prescritte dagli ambienti istituzionali. Ma vi sono altre organizzazioni che hanno criteri intrinseci che devono essere rispettati e sopravvivono grazie alla capacità di gestire in modo autonomo le proprie reti relazionali e di attività.

Tutte le organizzazioni fanno parte del contesto relazionale ed istituzionale, quindi hanno una funzione di coordinamento e supervisione delle attività ma anche di ottenimento di un resoconto. Il sopravvivere di alcune organizzazioni dipende dalla capacità di gestire le esigenze di relazioni interne ed esterne, mentre quella di altre organizzazioni, dipende dalle esigenze cerimoniali di ambienti altamente istituzionalizzati.

Un’organizzazione deve affrontare due problematiche, se il successo dipende dall’isomorfismo con regole istituzionali: il primo è che le attività tecniche e le esigenze di efficienza creano conflitti e incoerenze negli sforzi che un’organizzazione istituzionalizzata compie per conformarsi alle regole stabilite dall’organizzazione e della produzione. Il secondo è che le regole trasmesse dai miti provenienti da ambienti diversi, possono divergere tra loro. Tali incoerenze portano disattenzione all’efficienza, al coordinamento e al controllo.

Per risolvere tali incoerenze ci sono quattro soluzioni: la prima è che l’organizzazione può rifiutare le esigenze cerimoniali e, di conseguenza, trascura le risorse e la stabilità. Resistere alle esigenze cerimoniali col rischio di perdere risorse e stabilità; la seconda è che un’organizzazione può adattarsi rigidamente alle prescrizioni istituzionalizzate, abbandonando le relazioni esterne, creandone un isolamento che può portare i partecipanti esterni e gli interessati all’organizzazione, a restare delusi dall’incapacità di gestire gli scambi, poiché le organizzazioni non devono solo conformarsi ai miti, ma devono preoccuparsi anche di funzionare; la terza è che un’organizzazione può ammettere che la sua struttura non è adatta alle esigenze del lavoro, negando la validità dei miti e ostacolando la legittimità dell’organizzazione; la quarta è che un’organizzazione può promettere delle riforme sia per la struttura sia per l’attività. Sostenendo il futuro di una valida struttura, si renderà illegittima la presente. La separazione tra le due strutture regge nella misura in cui c’è discrezione, si minimizzano i controlli e si finge di non vedere. Fa parte della responsabilità professionale e si basa sulla fiducia reciproca tra i membri dell’organizzazione.

Oltre alle quattro soluzioni, un’organizzazione può avvalersi della separazione e della logica della fiducia.

Per quanto riguarda la separazione, poiché i tentativi di controllare e di coordinare le attività nelle organizzazioni istituzionalizzate generano conflitti e perdita della legittimità, gli elementi della struttura vengono separati dalle attività e l’uno dall’altro. Le attività vengono svolte indipendentemente dai dirigenti, ma le attività vengono delegate ai professionisti e gli scopi diventano ambigui o insensati ed i fini categorici sostituiscono quelli tecnici. L’integrazione e lo svolgimento dei programmi vengono trascurati ed evitati, e il controllo e la valutazione diventa un processo cerimoniale. Infine, sono rilevanti le relazioni umane, in quanto le regole formali creano incoerenze, è compito degli individui risolvere le interdipendenze tecniche in modo informale, coordinando il tutto trasgredendo le regole, cioè andando d’accordo con gli altri membri. Tale soluzione separativa, permette alle organizzazioni di mantenere strutture standardizzate, legittimanti e formali, mentre le loro attività mutano in base a pratiche che vengono generate all’interno della struttura.

Nella logica della fiducia, essa è ciò che legittima le organizzazioni istituzionalizzate. La fiducia viene mantenuta tramite tre pratiche: la tendenza ad evitare i confronti, la discrezione e il fingere di non vedere. Sia i partecipanti interni che i portatori esterni di interesse collaborano a queste pratiche. Il fatto che i singoli partecipanti mantengono le apparenze genera fiducia nell’organizzazione e rafforza la fiducia nei miti che razionalizzano l’esistenza dell’organizzazione. Per assorbire l’incertezza e mantenere la fiducia è necessario che le persone presuppongono che ognuno stia agendo in buona fede, quindi la separazione e il mantenimento delle apparenze sono meccanismi che presuppongono che le persone agiscano in buona fede. Più la struttura di un’organizzazione deriva dai miti istituzionalizzati, più essa ostenta fiducia, soddisfazione e buona fede, sia all’interno che all’esterno.

Poi vi è la valutazione e l’ispezione che agiscono da supervisori sociali violando il presupposto che ognuno agisca con competenza ed in buona fede. Violandone il presupposto si abbassa il morale e si diminuisce la fiducia. Le organizzazioni istituzionalizzate cercano di ridurre al minimo l’ispezione e la valutazione sia da parte dei dirigenti interni che da parte dei portatori esterni di interesse. Mantenere relazioni categoriche con sottounità organizzative è più stabile e sicuro che di basarsi sull’ispezione e controllo (Bonazzi, 2008, pp. 481-485; Powell e DiMaggio, 2000, pp. 59-87).

La gabbia di ferro rivisitata
(P. J. DiMaggio e W.W. Powell)

In “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, Max Weber analizzò come con l’avvento del capitalismo, l’ordine razionalista era diventato una gabbia di ferro in cui l’umanità sarebbe rimasta imprigionata “forse finché non verrà bruciata l’ultima tonnellata di carbone fossile”. Quando ne analizzò la burocrazia, dedusse che essa era lo strumento più efficiente e funzionale al controllo di uomini e donne, e la sua affermazione sarebbe stata irreversibile. La burocratizzazione era il risultato della libera concorrenza tra le aziende capitaliste, fattore rilevante per Weber; la competizione tra Stati, che portava i governanti a controllare i cittadini e dipendenti pubblici; il bisogno di una salvaguardia dei diritti dei cittadini per mezzo della legge. La causa della burocratizzazione e di omogeneizzazione è quella da trovare all’esterno della strutturazione dei campi organizzativi, cioè in un processo che è condizionato dallo Stato e professioni. La teoria organizzativa ne vuole spiegare le differenze che intercorrono nelle organizzazioni, dal punto di vista strutturale e del comportamento. Quando, all’inizio della loro formazione, i campi organizzativi hanno una eterogeneità di approcci e forme, una volta consolidati e stabilizzati, tendono ad omogeneizzarsi. Il campo organizzativo è quindi un insieme di organizzazioni che, complessivamente, costituiscono un’area riconosciuta di vita istituzionale, che svolge azione continua di formazione e controllo sull’attività di altri enti. La struttura di un campo organizzativo deve essere definita sulla base di una ricerca empirica, in cui i campi esistono solo nella misura in cui sono istituzionalmente definiti. La strutturazione è composta da quattro parti: una maggiore interazione tra le organizzazioni del campo, l’emergenza di strutture interorganizzative dominanti e modelli di coalizione definiti, un maggiore carico di informazioni che ciascuna organizzazione del campo deve gestire e lo sviluppo, tra le singole componenti, della reciproca consapevolezza di essere coinvolte in un’impresa comune. Una volta che le organizzazioni operanti si strutturano, si crea un insieme di forze che le inducono a somigliarsi l’una all’altra. Gli attori organizzativi che assumono decisioni razionali si creano attorno un ambiente che vincola la loro capacità di cambiare successivamente. Come affermò Selznick, nella promulgazione di nuove pratiche si crea un valore che va al di là delle esigenze tecniche del compito immediato, se ne può identificare una soglia lungo il processo di propagazione di un’innovazione che produce legittimazione. Si ha un vero cambiamento organizzativo, cioè quella mutazione della struttura formale, della cultura organizzativa, degli obiettivi, del programma o della missione, quindi il cambiamento organizzativo cambia in relazione alle condizioni tecniche. Le organizzazioni durature e di maggiori dimensioni, raggiungono ad un certo punto ad una posizione di dominio rispetto alle altre, nell’ambiente in cui operano invece di doversi adattare ad esso. Questo processo di omogeneizzazione è descritto dall’isomorfismo, cioè quel processo costrittivo che spinge un’unità di popolazione ad assomigliare ad altre unità che devono affrontare lo stesso insieme di condizioni ambientali. Le caratteristiche organizzative delle singole unità si direzionano a cercare una crescente compatibilità con le caratteristiche ambientali; il numero di organizzazioni è funzione della dimensione catectica dell’ambiente e le diverse forme organizzative sono isomorfiche alle diversità ambientali. Alle idee di isomorfismo di Hawley, ne danno elaborazione anche quelle di Hannan e Freeman, sostengono che l’isomorfismo può verificarsi quando varie forme organizzative non ottimali vengono escluse da una determinata popolazione organizzativa, o perché i responsabili delle decisioni organizzative apprendono le risposte più adeguate e modificano il loro comportamento di conseguenza.

L’isomorfismo istituzionale, non nasce dalla competizione tra le organizzazioni per conquistare risorse e mercati scarsi, ma dalla preoccupazione di ottenere legittimazione sociale e appoggi politici. I processi di isomorfismo rendono le organizzazioni più simili tra loro senza necessariamente renderle più efficenti e avvia tre forme di cambiamento all’interno della dimensione organizzativa: l’isomorfismo coercitivo, quando l’organizzazione è sottoposta a pressioni esterne che la obbligano a conformarsi (pongono vincoli che obbligano ad assumere modelli simili comportamento); quello mimetico quando le organizzazioni di fronte all’incertezza dell’ambiente iniziano spontaneamente ad attivare processi imitativi; quello normativo è relazionato a processi di professionalizzazione, in cui i soggetti che guidano l’organizzazione apprendono, in centri o reti specializzate, l’esistenza e la convenienza di nuovi modi di conduzione o nuove tecnologie (ruolo delle università, delle scuole, delle agenzie di consulenza). Le tre tipologie tendono a derivare da condizioni differenti e possono condurre a risultati diversi.

L’isomorfismo coercitivo deriva da pressioni formali e informali esercitate sulle organizzazioni da altre organizzazioni delle quali esse dipendono e nelle dimensioni culturali in cui esse operano. Queste pressioni possono essere percepite come atti di forza, tentativi di persuasione o inviti a colludere e i membri organizzativi vengono coinvolti per difendere quelle che, nel tempo, possono influire sui rapporti di potere all’interno delle organizzazioni. Weber ha affermato che la presenza di un sistema razionalizzato e complesso di diritto contrattuale induca le organizzazioni ad eseguire controlli che permettono loro di onorare gli impegni legali assunti. L’isomorfismo coercitivo può operare in modo sottile ed indiretto, e questo significa che le organizzazioni possono essere indotte ad installare un modello gerarchico di un certo tipo per poter ottenere il sostegno delle organizzazioni finanziatrici. Quando gli obiettivi sono ambigui o l’ambiente non è chiaro a livello simbolico, all’interno dell’organizzazione si innescano dei meccanismi che vanno a ricercare in altre organizzazioni dei modelli da imitare. Per esempio, un’organizzazione tende a divenire simile alle organizzazioni da cui dipende, per la sua esistenza economica, o può essere costretta a cambiare, perché un certo programma pubblico di finanziamento specifica determinati requisiti indispensabili. Le organizzazioni quando mostrano situazioni di interdipendenza incontrollabile, usano il maggior potere del sistema sociale circostante e del suo governo per eliminare difficoltà e per soddisfare le proprie esigenze. Meyer e Rowan dimostrano che quando gli stati razionalizzati o altre organizzazioni dominano su più campi della vita sociale, le strutture organizzative tendono a riflettere le regole istituzionalizzate e legittimate dallo e nello Stato. Le organizzazioni di un dato campo si mostrano sempre più omogenee e strutturate in base ai rituali di conformità a istituzioni più ampie e sono sempre meno determinate da vincoli tecnici e meno integrate al loro interno attraverso i controlli esterni, infatti le organizzazioni tendono ad usare controlli ritualizzati delle credenziali e della solidarietà di gruppo.

L’isomorfismo mimetico è quel processo in cui anche l’incertezza incoraggia l’imitazione. È probabile che una nuova organizzazione metta in atto questo processo per implementare la sua attività produttiva ed organizzativa. Quando gli obiettivi sono ambigui, o quando l’ambiente crea incertezza simbolica, le organizzazioni possono modellare se stesse seguendo altre organizzazioni. Il mimetismo, deriva dalla necessità di far fronte all’incertezza imitando altre organizzazioni che sono percepite come più legittimate. L’imitazione dei modelli non garantisce assolutamente l’efficienza, ma è efficace nel generare legittimità. Occorre aspettarsi mimetismo sia in casi di genuina incertezza quanto come strategia politica di mascheramento.

Quando un’organizzazione affronta un problema difficilmente identificabile nelle sue cause e soluzioni, cercare un modello esterno può essere una soluzione vantaggiosa, anche dal lato economico. Il modellamento come risposta all’incertezza. Un caso di modellamento fu lo sforzo dei rimodernatori del Giappone di attuare nuove iniziative amministrative strettamente somiglianti ai prototipi occidentali apparentemente di successo. Il governo imperiale mandò dei propri funzionari a studiarne il sistema giudiziario, militare e di polizia della Francia, il sistema postale e la marina della Gran Bretagna, la tecnica bancaria e l’insegnamento delle arti negli Stati Uniti. Le società americane cercano di realizzare modelli giapponesi per affrontare i problemi di produttività e gestione del personale nelle proprie imprese. C’è una componente rituale poiché le aziende adottando tali innovazioni per accrescere la loro legittimità, per dimostrare che stanno cercando di migliorare le proprie condizioni di lavoro e dei propri dipendenti. Tale isomorfismo può essere incoraggiato dalla presenza o di una forza-lavoro specializzata o una clientela solida e diffusa. In ogni settore economico, le nuove organizzazioni si modellano su quelle già esistenti e i dirigenti cercano attivamente modelli dai quali partire. Le organizzazioni tendono a modellarsi su organizzazioni simili, dello stesso settore di attività, che reputano più legittime e prospere di loro.

L’isomorfismo normativo nasce da processi di professionalizzazione: i vertici apprendono, in centri specializzati, dei metodi di conduzione e l’utilizzo di nuove tecniche di gestione dell’organizzazione attraverso particolari strumenti tecnologici nuovi ed approcci diversi. Questo genere di isomorfismo è direttamente riconducibile dalle influenze esercitate dagli stessi organismi di rappresentanza delle categorie professionali stesse. Concentrarsi sul come l’ambiente istituzionale si sia trasformato porta a considerare come endogeni all’analisi quei processi che altrimenti sarebbero trattati come dati, per cui si farebbe più o meno meccanicamente discendere il cambiamento organizzativo da uno stato relativamente stabile di condizioni istituzionali. Al contrario, considerare l’evoluzione dell’ambiente istituzionale, inserisce un elemento di dinamicità e di processualità nell’analisi con cui cogliere la co-evoluzione dell’ambiente istituzionale e delle organizzazioni in esso operanti. L’analisi di questi cambiamenti istituzionali passa attraverso i processi con cui regole, ideologie, retoriche, miti razionalizzati connessi ad un’organizzazione cambiano, e con essi le definizioni di lavoro organizzativo e le modalità pratiche con cui realizzarlo. Difficilmente un progetto di professionalizzazione avviene con estremo successo, i professionisti devono scendere a compromessi con clienti, capi, organi esterni alla professione. Le professioni hanno le stesse pressioni coercitive e mimetiche che influenzano le organizzazioni, poiché i professionisti nell’organizzazione possono presentare caratteristiche diverse, ma bisogna dire anche che, si rivelano delle affinità con le analoghe figure professionali che operano in altre organizzazioni. Due sono le fonti rilevanti dell’isomorfismo: il primo è che l’istruzione formale e la legittimazione poggiano su una base cognitiva che è il prodotto di un’istruzione universitaria specialistica; il secondo è lo sviluppo e l’articolazione di reti professionali trasversali all’organizzazione, in cui i nuovi modelli si diffondono velocemente. Una caratteristica importante per l’isomorfismo normativo è il filtraggio del personale che si verifica in molti campi organizzativi tramite l’assunzione di lavoratori già impiegati in imprese dello stesso settore, reclutamento di personale ad alto potenziale, l’abitudine di selezionare gli alti dirigenti tra coloro che provengono da carriere finanziarie o legali e fissare vari livelli di competenza richiesti per lo svolgimento di determinate mansioni. Gli individui che operano in un certo campo organizzativo sono avvolti da un processo di socializzazione anticipata in cui interiorizzano le aspettative comuni circa il comportamento personale ritenuto adeguato, l’abbigliamento, il linguaggio, interazione. Se le organizzazioni di un campo sono diverse e la socializzazione al mestiere avviene sul lavoro, può succedere che la socializzazione rafforzi le differenze interorganizzative, ma se, le organizzazioni sono omogenee e la socializzazione avviene attraverso i seminari promossi dalle associazioni di settore, i programmi di formazione, gli accordi, le reti di formazione, allora la socializzazione agisce come una potenza isomorfica. Lo scambio di informazioni tra professionisti, sia con mezze formale sia informali, può creare una gerarchia riconosciuta che definisce gli status, il centro e la periferia e ne diventa una componente dei flussi di informazioni e moti di personale tra le varie organizzazioni. Vi possono essere anche i percorsi di carriera che possono provocare uno spostamento da posizioni di entrata in organizzazioni centrali, a posizioni in organizzazioni periferiche, e i flussi di personale in un campo organizzativo sono favoriti dall’omogeneizzazione strutturale, come ad esempio le gerarchie e affinità di carriera (professore assistente, associato o di ruolo) che hanno significati condivisi. Va detto però che le organizzazioni anche se accrescono l’efficienza interna, il tutto è dovuto ai benefici che le organizzazioni ricavano dal diventare più simili alle altre organizzazioni del proprio campo.

Vi sono degli indicatori a livello organizzativo che ne analizzano la variabilità nel grado e nella rapidità con cui le organizzazioni si modificano per divenire più simili alle altre organizzazioni del settore: alcune organizzazioni rispondono velocemente alle pressioni esterne, altre in un lungo periodo di tempo. Vi sono sei ipotesi a livello organizzativo:

quanto maggiore è la dipendenza di un’organizzazione da un’altra, tanto più essa diventerà simile a quest’ultima per struttura, clima interno e comportamenti prevalenti, in cui le organizzazioni sono in grado di resistere alle pressioni di altre organizzazioni se non vi dipendono, in cui la dipendenza smorza il cambiamento isomorfico e le pressioni coercitive vengono esercitate all’interno di relazioni di scambio;
quanto maggiore è la centralizzazione della fornitura di risorse di una data organizzazione, tanto più tale organizzazione cambierà isomorficamente per assomigliare all’organizzazione da cui dipende per la fornitura delle risorse, in cui le organizzazioni che dipendono da una medesima fonte per ottenere fondi, sono soggette a richieste dei fornitori di tali risorse rispetto a quelle organizzazioni che possono trarre vantaggio dalla lotta tra più potenziali fornitori. Se non vi sono alternative, la parte più forte, può, in modo coercitivo, imporre a quella più debole le proprie pratiche, per soddisfare le proprie esigenze;
quanto maggiore è l’incertezza della relazione tra mezzi e fini, tanto più un’organizzazione si modellerà su altre organizzazioni che essa ritiene di successo, in cui la ricerca di modelli caratterizza il cambiamento di quelle organizzazioni con determinate tecnologie poco chiare. I cambiamenti interni devono essere accompagnati da un incremento delle pratiche cerimoniali, determinando maggiore omogeneità e minore cambiamento e variabilità;
quanto più ambigui sono i suoi scopi, tanto più un’organizzazione si modellerà su altre organizzazioni che essa ritiene di successo, questo perché si acquisisce legittimità nelle organizzazioni con obiettivi ambigui o controversi che dipende dalle loro apparenze, in modo che esse possano conformarsi alle attese che gli attori esterni si aspettano dalla loro struttura e dal modo in cui sono gestite. Può succedere che vi possono essere situazioni in cui il conflitto sugli scopi dell’organizzazione venga soffocato per ricercarne un’armonia interna;
dentro un campo organizzativo, quanto più si fa affidamento su credenziali accademiche nella scelta di manager e del personale, tanto più sarà il grado di somiglianza tra le organizzazioni del campo;
quanto maggiore è la partecipazione nelle associazioni professionali e di categoria dei dirigenti, tanto più alta sarà la probabilità che essa sia o diventi simile alle altre organizzazioni del suo campo.

Oltre agli indicatori di livello organizzativo, vi sono quelli a livello interorganizzativo che descrivono le conseguenze attese di alcune caratteristiche dei campi organizzativi sul grado di isomorfismo presente in un dato campo. Gli indicatori possono essere diversi a seconda della natura del campo e degli interessi del ricercatore. Sono anch’essi di sei tipologie:

quanto maggiore è il grado di dipendenza di un campo organizzativo da una singola fonte di approvvigionamento delle risorse vitali, tanto più elevato è il livello di isomorfismo, in cui la centralità delle risorse è causa di omogeneizzazione poiché sottopone le organizzazioni a pressioni esterne da parte dei fornitori delle risorse, ma interagisce con l’incertezza e l’ambiguità degli obiettivi;
quanto maggiore è il grado di interazione tra le organizzazioni di un campo e le agenzie statali, tanto più alto è il grado di isomorfismo di quel campo, in cui vi sono forti vincoli posti da un sistema di regole e razionalità formale e la rilevanza che gli uomini di governo attribuiscono alle norme istituzionali;
quanto minore è l’insieme visibile di modelli organizzativi disponibili dentro un campo, tanto maggiore è la velocità del processo isomorfico, in cui per ogni dimensione rilevante di strategie e strutture organizzative nel campo, vi è una soglia o rottura in cui la forma dominante procederà velocemente;
quanto più alto è il grado di incertezza delle tecnologie o ambiguità di obiettivi in un campo, tanto maggiore è la velocità del cambiamento isomorfico, in cui improvvisi picchi di incertezza e ambiguità, dopo la loro sperimentazione, conduce a rapidi cambiamenti, in cui agisce l’ambiente, la centralità delle risorse, la professionalizzazione e la strutturazione;
quanto più alto è il grado di professionalizzazione nel campo, tanto maggiore sarà l’entità del cambiamento isomorfico istituzionale, facendo riferimento alle credenziali formali, alla difficoltà d’insediamento delle strutture o alla vitalità delle associazioni;
quanto più elevato è il grado di strutturazione nel campo, tanto maggiore è il livello di isomorfismo, in cui i campi che presentano centri, periferie e gerarchie di status tendono a diventare più omogenei perché il diffondersi dei nuovi modelli e norme è più automatico, e perché il grado di interazione tra le organizzazioni del campo è più elevato. Può essere misurabile, anche se non facilmente, con i tassi di concentrazione o interviste che riproducono e ricostruiscono come la gente pensa che stiano le cose o altre situazioni. Le organizzazioni che appartengono a un campo possono essere molte diverse rispetto a certe dimensioni, ma omogenee rispetto ad altre.

(Powell e DiMaggio, 2000, pp. 88-115; Bonazzi, 2008, pp. 472-475; Pichierri, 2005, pp. 140)

Il ruolo dell’istituzionalizzazione nella persistenza culturale
(L. G. Zucker)

L’etnometodologia si occupa della cultura emergente, affrontando il problema della creazione di una nuova cultura, e della cultura esistente, affrontando il problema della persistenza culturale. Perché si possa parlare di persistenza culturale occorre che ne venga attivato un processo di trasmissione da una generazione all’altra, in cui l’uniformità intergenerazionale sia direttamente proporzionale al livello di istituzionalizzazione. Una volta che la trasmissione si attiva, ci deve essere una conservazione della cultura, e il livello di conservazione di essa deve essere direttamente proporzionale al grado di istituzionalizzazione. Nel processo di tale conservazione, la persistenza culturale dipende dalla resistenza ai tentativi di cambiamento, e il grado di resistenza è direttamente proporzionale al livello di istituzionalizzazione. Le spiegazioni per la persistenza culturale usano un approccio per sotto-sistemi, in cui ci si focalizza su gruppi o settori specifici, quindi diverse attività legate a particolari norme rappresentandone una parte distinta delle istituzioni. La persistenza si fonda sulla necessità funzionale e l’esistenza di un desiderio di gratificazione che deriva dall’interesse personale. Questo fu legato a molte critiche, perché non si può determinare una necessità funzionale prescindendo dalla persistenza, e nelle istituzioni alcuni atti sembrano richiedere sanzioni mentre altre no, cosicché l’esistenza di un controllo sociale diretto non può spiegarne la persistenza. L’altra spiegazione sulla persistenza culturale è legata ad un approccio normativo delle istituzioni che persistono grazie alla condivisione di alcune norme. L’attore è motivato internamente a fare ciò che deve, anche se tale approccio non offre alcuna distinzione per analizzare i processi istituzionali da quelli che non lo sono, è solo dopo che una norma viene interiorizzata che può essere identificata come istituzionalizzata. In entrambi gli approcci si attenziona come l’attore si adegui all’atto istituzionale, e per far ciò si ricorre alla necessità funzionale, agli interessi personali o all’interiorizzazione, in cui le istituzioni fungono da vincoli al suo comportamento. La struttura sociali ne determina il comportamento dei individui (macrolivello) e piccoli gruppi (micro livello). Per giungere a definizioni condivise della realtà, gli attori individuali si fanno portatori di una realtà esteriore e oggettiva, mentre contemporaneamente questa realtà, definisce ciò che è reale per questi attori. L’attore percepisce e descrive la realtà sociale mettendola in pratica e la trasmette agli altri attori del sistema sociale. I giovani vengono acculturati dalla generazione precedente e a loro volta trasmettono il patrimonio culturale ricevuto alla generazione successiva. Da ciò se ne può dedurre come l’istituzionalizzazione è quel processo in cui gli attori individuali trasmettono ciò che è socialmente definito come reale e, allo stesso tempo, il significato di un atto ne può essere come componente di una determinata realtà sociale. Gli atti istituzionalizzati sono oggettivi quando sono potenzialmente ripetibili da altri attori senza che la comprensione di essi ne venga alterata, mentre sono esteriori quando la comprensione soggettiva di essi viene ricostruita come parte del mondo esterno. Gli atti posso variare rispetto al loro livello di istituzionalizzazione. L’istituzionalizzazione evidenzia ciò che è razionale in senso oggettivo. Il significato di un atto può essere percepito come esteriore e oggettivo in relazione alla situazione in cui è compiuto e/o in relazione alla posizione e al ruolo occupati dell’attore. Gli atti compiuti da un attore che abbia posizione/ruolo specifico ne detengono un alto livello di istituzionalizzazione. Se l’attore riveste una carica, i suoi atti sono considerati indipendenti dalla sua persona e permanenti nel tempo a prescindere dai diversi attori, e l’esistenza di una carica incrementa la conoscenza intersoggettiva degli atti appropriati. Quando un attore che esercita un’influenza personale abbandona una situazione, non è dato presumere che l’attore successivo ne detenga le sue stesse caratteristiche, poiché gli effetti dell’influenza personale dipendono dalle caratteristiche delle particolari persone che si trovano ad interagire. Ogni attore è considerato come unico e per questo ciascuno influenza gli altri in modo indipendente. Gli atti compiuti da attori che esercitano un’influenza personale hanno un basso livello di istituzionalizzazione.

L’istituzionalizzazione alimenta i processi di trasmissione, conservazione e resistenza al cambiamento. L’attore che opera la trasmissione si limita a comunicarla come fatto oggettivo e l’attore che la riceve la considera come il rapporto accurato di un fatto oggettivo. Sebbene alcune trasmissioni passino tramite l’influenza personale, l’incrementare l’oggettivazione e l’esteriorità, incrementerà la trasmissione. Ciò che porta la formazione delle caratteristiche di oggettivazione ed esteriorità, è la continuità. La trasmissione di dati altamente istituzionalizzati è sufficiente a garantirne la conservazione. Per gli atti con un basso livello di istituzionalizzazione è necessario un controllo sociale diretto, mentre se si ha un alto livello di istituzionalizzazione tutto ciò che si richiede è la trasmissione. Il processo di istituzionalizzazione definisce una realtà sociale che sarà trasmessa e conservata come un dato di fatto. Gli atti caratterizzati da un alto livello di istituzionalizzazione saranno più resistenti ai tentativi di cambiamento messi in atto tramite l’influenza personale, perché saranno visti come fattori esterni imposti dall’ambiente organizzativo che, al tempo stesso, lo definiscono. Gli attori che, invece, esercitano una propria influenza personale, sono altamente dipendenti dall’attore e dalla situazione in cui viene compiuto il tentativo di esercitare l’influenza.. Quindi un atto istituzionalmente elevato che viene trasmesso, avrà tentativi di mutamento, tramite l’influenza personale, decisamente senza successo e, anzi, potranno condurre ad una ridefinizione dell’attore piuttosto che dall’atto compiuto. Durante una ricerca sul grado di istituzionalizzazione, essa venne articolata in tre esperimenti, in cui l’assunto di base era il fenomeno dell’auto-cinetica:

L’sperimento della trasmissione (Sherif, Jacobs e Cambell), in cui se ne voleva verificare l’affermazione in cui quanto è maggiore il livello di istituzionalizzazione, tanto maggiore sarà l’uniformità della visione culturale. L’uniformità sarà minima nei casi di influenza personale, minimo nei contesti organizzativi che ne dispongono una esistenza catectica nei contesti organizzativi. L’esperimento raggruppò 180 donne, di cui 45 parteciparono a tutti gli esperimenti, e 45 al caso di controllo. Si osservarono tre generazioni e fu ripetuto 15 volte. Il luogo fu una stanza buia per facilitare la percezione del fenomeno auto-cinetico. La luce veniva controllata da un timer e da un motore. Prima di entrare il soggetto vedeva le varie istruzioni da rispettare. Nel caso di controllo, le istruzioni attiravano l’attenzione sul compito da seguire e non vi era data alcuna informazione sulle caratteristiche o visioni sociali. I soggetti in stanza dovevano valutare in pollici la distanza che la luce percorreva dal momento in cui appariva fino a quando non veniva spenta, valutandola un certo numero di volte. L’esperimento era numerato da un foglio, quindi del tutto anonimato. Per il caso dell’influenza sociale vi era la descrizione completa dei compiti in cui si spiegava che vi era la partecipazione anche di altre persone, tra cui una chiusa in un’altra stanza. Durante la registrazione si chiedeva di rispondere prima all’altra persona e poi, dopo che questa fosse uscita, di prendere il suo posto, e un’altra persona verrà fatta entrare. Allora si richiedeva di rispondere per primi. Dopo che si lavorava insieme all’altro membro, poi dovevano sostituirsi. A quel punto un nuovo membro sarebbe entrato al posto dei precedenti e avrebbe fatto parte dell’organizzazione. Il membro che ha trascorso più tempo nell’organizzazione sarà “l’Operatore delle luci”, quando uscirà, lo stesso ruolo verrà affidato ad un altro membro (Membro I, Membro II, etc …). All’ultimo membro verrà chiesta la valutazione e si chiamerà Membro I. Nel caso dell’influenza sociale in cui il livello di influenza di continuità era basso, il numero assegnato a ciascuno era 3, invece, nel contesto organizzativo e dell’ufficio formale, venivano classificati con numero 103, mentre nel caso di controllo il numero era 21. Condotti al luogo dell’esperimento, i soggetti venivano fatti sedere uno accanto all’altro a circa due metri e mezzo dalla scatola luminosa. I soggetti venivano bendati prima di entrare nella stanza. Chi conduceva l’esperimento interagiva con i soggetti tramite un microfono e sollecitava le risposte chiamando un nome o numero. Nell’influenza personale e nel contesto organizzativo, chi conduceva controllava il timer e sollecitava le risposte usando il nome di battesimo del soggetto. Nell’ufficio formale chi stava più tempo nella stanza controllava il timer, durante la seconda serie di 30 prove. Dopo ciascuna serie, il membro anziano del gruppo veniva fatto uscire, l’altro si spostava sulla sedia a destra e un nuovo membro veniva fatto entrare. Nella prima generazione il membro anziano era un complice che era stato istruito su come rispondere con valutazioni di 12 pollici di media tra i 9 e 15 di raggio. Uscito dalla stanza veniva intervistato, ma se esso non era l’ultimo soggetto non veniva intervisto, ma venivano presi accordi perché tornasse la settimana successiva.

Esponendo il soggetto alla luce per 90 volte si sarebbe spiegato il grado di cambiamento che si verificava quando un complice presentava, nei casi sperimentali, uno standard di valutazione alto. Si rilevò che nel caso di controllo di 45 soggetti la risposta fu costante per le 3 serie di 30 ripetizioni.

Nell’analisi sperimentale venivano confrontati i livelli di risposta delle ultime generazioni. Poi sono sottoposti a confronto i livelli medi di risposta prodotti dai soggetti ingenui nel corso delle tre generazioni, per verificare la previsione relativa all’ordine dei casi dell’esperimento. Con una base di riferimento di 3,8 pollici, il soggetto ingenuo eseguiva delle valutazioni medie di 12, 4 – 9,3 – 7,1 e 5,8 pollici. Se ne analizzò che il risultato operativo fu costante. Il coefficiente di trasmissione è il rapporto tra gli incrementi dei livelli di risposta dei successivi soggetti ingenui rispetto alla base di riferimento:in cui Si è la risposta media dei soggetti ingenui e B è la risposta base di riferimento. Ne è stato analizzato il coefficiente medio di risposta, con tale formula:

Nell’influenza personale ne emerge una differenza maggiore tra i coefficienti rispetto agli altri due casi, forse perché nella terza generazione il livello di risposta si avvicina alla risposta della base di riferimento. Dai risultati dei livelli medi di risposta dei soggetti ingenui attraverso tre generazioni se ne evince che nell’influenza personale, nel contesto organizzativo e nell’ufficio formale, il valore diminuisce all’aumentare della fase di generazione e l’influenza personale diminuisce, in ogni singola generazione, rispetto al contesto organizzativo, ed esso, a sua volta, è minore dell’ufficio formale:

Alla base dell’esperimento quindi, se il grado di istituzionalizzazione cresce, l’ uniformità visiva culturale di ciascuna generazione sarà maggiore. Se ne analizzarono i gradi di efficacia delle manipolazioni sperimentali e si ipotizzò che un aumento del grado di istituzionalizzazione avrebbe incrementato la certezza soggettiva dei soggetti rispetto alla precisione delle proprie valutazioni, la facilità di misurazione della luce che percepivano e le aspettative vissute rispetto al fatto che le proprie risposte sarebbero state uguali a quelle del soggetto più esperto. Da ciò, se ne ipotizzò anche che, chi ne deteneva la dimensione catectica era visto in modo impersonale, quindi la sua posizione istituzionalizzata avrebbe aumentato la distanza dovuta al ruolo e inciso sulla percezione degli attributi di chi ne occupava tale posizione. Nel questionario i soggetti dovevano rispondere a tre domande sulla percezione dell’istituzionalizzazione, con un foglio tracciato da una scala a 7 livelli, di cui 1 aveva il valore categoriale di “SICURO” e 7 di “INSICURO”. Si ipotizzò che il livello di certezza aumentasse con l’aumentare dell’istituzionalizzazione, per la fiducia nella precisione della valutazione individuato dal gruppo e non di quello individuale. Inoltre, nei casi di maggior livello di istituzionalizzazione i soggetti fossero più sicuri della propria valutazione e mutassero nella direzione delle valutazioni espresse dal complice, allontanandosi dalla risposta di riferimento dell’esperimento. Oltre a questo, si richiedeva di specificare i problemi riscontrati durante la valutazione, e se ne dedusse che maggiore era il grado di istituzionalizzazione e di certezza della precisione, tanto più facile fosse stimare il movimento della luce. Qui la certezza ne raffigurava fattore di difficoltà. E poi se ne considerò la percezione dell’istituzionalizzazione, cioè se a parer proprio, le risposte dovessero essere uguali rispetto al gruppo precedente di sperimentazione. Si ipotizzò quindi che quanto maggiore era il grado di istituzionalizzazione, tanto più frequentemente il soggetto avrebbe affermato che la sua risposta dovesse essere uguale a quella dell’altra persona che si trovava nella posizione di esperto o guidatore della trasmissione. Quanto maggiore era l’istituzionalizzazione, tanto più i soggetti avrebbero dovuto sentirsi costretti a trasmettere la valutazione del complice. I soggetti erano meno sicuri della propria decisione nell’influenza personale che in qualsiasi caso maggiormente istituzionalizzato. Sebbene i soggetti erano meno sicuri della propria precisione nel contesto organizzativo che nel caso dell’ufficio formale, la differenza non era così grande. Nell’influenza personale molti erano in difficoltà e oltre la metà dei soggetti non si era sentita costretta a dare la stessa risposta del complice. Nell’ufficio formale, solo il 7% dei soggetti non si era sentito normativamente costretto. In tabella vi sono riportate le risposte secondo la stipulazione del questionario, in cui quanto minore è il numero, tanto maggiore sarà la sicurezza della precisione della propria valutazione (Scala da 1 a 7):

All’esperimento sulla trasmissione, si susseguì l’esperimento sulla conservazione. Tale esperimento voleva dimostrare che quanto maggiore è il grado di istituzionalizzazione, tanto maggiore è il grado di conservazione della visione culturale in assenza di diretto controllo, in cui nell’influenza personale i soggetti mantenessero basso livello di risposta, che nell’ufficio formale fosse più elevato e nel contesto organizzativo i soggetti mantenessero un intermedio livello di conservazione. Il terzo soggetto dell’esperimento, tornò una settimana dopo, quindi il numero era di 15 per caso, per un totale di 45. Ci furono le stesse procedute rispetto a quanto era avvenuto per la trasmissione, ma se con due eccezioni, cioè che non si trattava di una situazione di trasmissione, quindi non vi era nessuna dimensione legata alla generazione, e poi il soggetto rispondeva da solo alle 30 domande. Al soggetto venivano date le stesse istruzioni e veniva informato dal fatto che la persona che aveva l’appuntamento alla stessa ora non era ancora arrivata e che, per ricordare il suo compito, avrebbe valutato il movimento della luce da solo fino all’arrivo dell’altra persona. Il risultato fu che al diminuire dell’influenza personale, riferita al terzo soggetto, ne diminuivano sia il contesto organizzativo che l’ufficio formale tra gli esperimenti di trasmissione e quello di conservazione. Si fece un’analisi della varianza per esaminare la differenza tra i livelli di risposta del soggetto nella fase della trasmissione e della conservazione, dandone una rilevanza statistica sugli effetti delle visioni culturali dovuti all’istituzionalizzazione.

L’ultima fase fu l’esperimento della resistenza al cambiamento, in cui si verifica che quanto maggiore è il grado di istituzionalizzazione, tanto maggiore è la resistenza al cambiamento delle visioni culturali tramite l’influenza personale. Dopo le prove individuali, si fece entrare un complice, presentato come colui che aveva fatto ritardo nell’arrivare. Il complice assumeva un livello di risposta inferiore rispetto a quello di riferimento, in modo tale da misurare la resistenza al cambiamento. Si ipotizzò che le valutazioni avrebbero presentato una resistenza minore al cambiamento nel caso dell’influenza personale piuttosto che nel caso del contesto organizzativo e che sarebbe stata inferiore in esso piuttosto che nel caso dell’ufficio formale. I soggetti, apparati e procedure furono uguali, anche se vi fu introdotto un complice. Ognuno aveva 30 prove, in cui il complice rispondeva per primo dal momento che non aveva avuto il tempo di ricordare quella determinata situazione. Il risultato fu che nell’influenza personale, il cambiamento fu maggiore, quello del contesto organizzativo fu minore, e nell’ufficio formale fu minore in assoluto. I dati confermarono l’ipotesi relativa agli effetti dell’istituzionalizzazione sulla resistenza al cambiamento.

La creazione di un contesto organizzativo può portare i soggetti ingenui a credere che il conduttore si aspetti da loro che conformino la propria valutazione a quella del soggetto più esperto. Se ne evince che altri aspetti dell’istituzionalizzazione, sono covarianti del livello di istituzionalizzazione, in cui la certezza della propria precisione, la percezione di difficoltà nella valutazione del movimento della luce e l’aspettativa che le proprie risposte siano uguali a quelle del soggetto “esperto”. Invece quanto maggiore è il grado di istituzionalizzazione della conservazione, tanto più grande è il successo che ottiene senza usare un diretto controllo sociale. Gli effetti istituzionali sono più espliciti quando non vi è nessun processo sanzionatorio. La resistenza invece è molto legata al processo di istituzionalizzazione, a prescindere dalle sanzioni. Le risposte del complice ne davano una dimensione sanzionatoria positiva verso i livelli di risposta inferiori dei soggetti, per scoprire quanto il grado di istituzionalizzazione era scarso e quanto questo processo sanzionatorio faceva scendere i livelli di risposta dei soggetti inferiori a quelli di riferimento. La resistenza al cambiamento presuppone una funzione di gratificazione; se si associano più gratificazioni ad un’azione rispetto all’altra, l’azione maggiormente gratificata avrà una maggiore resistenza al cambiamento.

I risultati dei tre esperimenti, offrono una panoramica di ipotesi dell’esistenza di un rapporto tra il grado di istituzionalizzazione e la persistenza culturale. Quanto maggiore è il grado di istituzionalizzazione, tanto maggiore è la sua uniformità generazionale della visione culturale, la conservazione senza un diretto controllo sociale e la resistenza al cambiamento tramite l’influenza personale. Lo scopo dell’esperimento era quello di verificare la misura in cui una manipolazione culturale, che contrastava con la percezione visiva dei soggetti sottoposti alla prova, veniva percepita da questi soggetti come la risposta giusta, quindi imitata. L’esperimento dimostrò che: la certezza di un soggetto non proviene dalle percezioni sensoriali, ma dalle credenze con cui interpreta quelle percezioni; quanto più forte è un contesto istituzionale, maggiore sarà il suo contenuto culturale trasmesso senza scostamenti; non sono le difficoltà nel risolvere un problema a creare incertezza, ma è la certezza delle credenze fornite dall’istituzione a ridurre le difficoltà (tanto più è debole un’istituzione, tanto più ci saranno difficoltà percepite dai soggetti che si ritroveranno senza guida); più un soggetto percepisce la solidità di un contesto istituzionale, tanto più egli si aspetta che anche gli altri soggetti diano risposte conformi alle sue. I punti di forza di tale esperimento furono infatti i modi di creazione e trasmissione di istituzioni e di considerare i fenomeni di istituzionalizzazione come processi produttivi (Powell e DiMaggio, 2000, pp. 116-148; Bonazzi, 2008, pp. 475-481).

PER UN’ANALISI EMPIRICA DEI PROCESSI ISTITUZIONALI
La costruzione di un campo organizzativo come progetto professionale: i musei d’arte negli Stati Uniti, 1920-1940
(Paul J. DiMaggio)

La teoria istituzionalista pone l’attenzione sui processi di influenza reciproca tra organizzazioni, e presta attenzione a organizzazioni come le agenzie governative e le associazioni commerciali, all’esterno di un comparto industriale, ma all’interno di un settore o campo, e influenzano o vincolano le organizzazioni che producono beni e servizi. Per comprendere l’istituzionalizzazione delle forme organizzative, prima ne dobbiamo comprendere l’istituzionalizzazione e la struttura dei campi organizzativi. La ricerca di DiMaggio ne vuole descrivere alcuni momenti del processo di strutturazione di un campo organizzativo, quello dei musei d’Arte negli Stati Uniti. La diffusione di nuove forme organizzative sottolineando l’importanza degli imperativi organizzativi e di decisioni locali, deducendone che le forme organizzative vengano standardizzate tramite l’evoluzione della visione che il senso comune ha di come si crea un’organizzazione. Nel mondo dei musei vi sono vari disaccordi sull’emergere di un’infrastruttura nazionale che ne velocizza il processo di diffusione. All’interno della teoria istituzionalista vi sono anche diverse tensioni all’interno del processo di istituzionalizzazione. Nel campo dei musei, il prezzo dell’approvazione fu la mobilitazione di un gruppo costituente , che in includeva professionisti museali e riformatori sociali, con interessi divergenti rispetto a quelli dell’élite locali che finanziano i musei. A queste caratteristiche, ciò che stupì fu la debolezza del conflitto che scaturì all’interno dell’organizzazioni e la forza di quello che si verificò a livello di campo. I professionisti museali sembravano avere una doppia coscienza che li portava ad agire da conservatori rispetto ai ruoli organizzativi e di usare le organizzazioni del campo per attaccare il sistema nel quale lavoravano. Il ruolo dei professionisti è centrale poiché essi dominarono tanto gli sforzi di riforma quanto l’organizzazione del campo.

Alla fine del XIX secolo nacquero i musei d’arte americana come strumenti istituzionali educativi per dare raffinatezza attraverso il design industriale mettendo in mostra oggetti di grande cultura. Il suo tratto educativo si spostò verso quello più di acquisizione degli intenditori, quando mutando gli standard estetici, le opere d’arte venivano acquistate dai collezionisti. Uno dei primi modelli museali fu quello Gilman, segretario del Boston Museum of Fine Arts, che trasformò il museo da dimensione educativa ad un’istituzione di conservazione e cura. Le opere furono classificate in una categoria più ampia e raffinata come “arte vera e propria” e quella più generale “non arte”, in cui questa fu esclusa dalle collezioni. Al modello di Gilman, si contrappose quello di Cotton Dana, diretto del Museum of the Newark Library Association, influenzata dall’esperienza delle biblioteche pubbliche e dei grandi magazzini. Erano due modelli del tutto contrapposti perché, quello di Gilman attenzionava la collezione e conservazione dell’oggetto, selezione e sacralizzazione di ciò che veniva classificato come opera d’arte. Quello di Dana poneva in analisi l’educazione di un vasto pubblico di esposizioni speciali e interpretazione dei lavori esposti. Diverse erano anche le visioni e ideologie artistiche perché per Gilman la vera arte era una rarità, senza tempo, non utile e qualitativamente diversa dalla non arte. Per Dana l’arte era rivestita di oggetti più ampi, ben disegnati, considerando l’arte inseparabile dal contesto sociale, mettendone a disposizione l’esposizione dei gessi e copie ben fatte, anzi Dana pensava che il maggior contributo dei musei americani fosse il design delle stanze da bagno. Secondo Gilman il visitatore, da lui chiamato “discepolo”, doveva avere una percezione diretta dell’opera d’arte, infatti vi erano solo supporti interpretativi più scarni in modo tale da contaminare il meno possibile il rapporto tra il soggetto e l’oggetto della percezione. Questo metodo privilegiava la percezioni di un pubblico più istruito e di classe superiore, che utilizzando i contatti sociali o l’istruzione scolastica, poteva ottenere ciò che al museo era vietato insegnare, quindi il consumo artistico venne ritualizzato. Nel modello di Dana, invece, si demistificava l’arte e, con le letture di una determinata opera, si concentrava sull’educazione.

Queste differenze rendevano noti il modo di concepire il pubblico del museo e le componenti che i funzionari dovevano soddisfare. I musei convenzionali erano amministrati da patroni, fiduciari e donatori e modellavano i propri programmi sui bisogni e interessi delle élite locali, collezionisti e classe media istruita, invece, i musei influenzati dal modelli riformista di Dana, consideravano che la propria comunità di riferimento includesse un vasto pubblico generico, mondo della produzione, progettisti e artigiani. Nel modello di Gilman si cercava di incrementare le proprie collezioni e spingere il badget per comprare la maggior quantità di arte e conservare ciò che aveva acquistato. Invece nel modello di Dana il rafforzamento si basava sul successo delle biblioteche pubbliche, quindi una rapida espansione del badget e dello staff, incremento della frequenza e aumento del sostegno della città. Nel modello tradizionale poneva di base la proliferazione dei classici edifici museali, situati in luoghi remoti, invece, nel modello riformista erano costruiti prendendo di base il modello dei grandi magazzini, vicino a vari centri commerciali, ed esposizioni che mettevano in mostra le opere di artisti americani viventi. Negli anni Trenta gli Stati Uniti avevano 167 musei tra cui 60 erano stati creati negli ultimi nove anni, e nonostante la Grande Depressione, avrebbe aumentato il suo numero fino a 387. Crescendo in ricchezza e dimensione, i musei offrirono molti posti di lavoro di ogni genere di specializzazione e suddivisero il personale in diversi dipartimenti. Gli anni Venti, inoltre furono caratterizzati dall’incremento del sistema municipale ai musei, di cui si rivolgeva alla città per fronteggiare le spese di costruzione, mantenimento ed erogazione dei servizi educativi, dando ai fiduciari l’incarico di finanziare le collezioni, stipendi e borse di studio. Per alcuni musei nuovi, l’aiuto municipale per i fiduciari alleggerì le richieste di contributi e il sostegno della città rafforzò la posizione di quella parte dello staff che desiderava investimenti maggiori nel campo educativo. Sotto la guida di Keppel, la Carnegie Corporation, diede un grandissimo sostegno economico, di cui il primo comitato era costituito da storici e critici dell’arte, di cui ne diede un grande sostegno economico e la creazione di un pacchetto formativo per l’insegnamento della storia dell’arte da distribuire nei college e università, e per sostenere l’applicazione di tecniche scientifiche per l’analisi e la conservazione delle opere d’Arte. I programmi della Carnegie favorirono l’emergenza di un’élite museale, poiché le sue donazioni sponsorizzarono lo sviluppo di programmi di formazione, in cui molti studenti ne furono la costituente di una rete informale che dominò il campo dei musei d’arte per molto tempo. Poi i membri della Carnegie e di componenti dello staff dei musei come membri dei propri gruppi consultativi aumentava il prestigio e moltiplicava i contatti professionali di coloro che erano stati scelti. Infine, Keppel veniva consultato dai fiduciari dei musei in cerca di un direttore. Per concorrere alla direzione del Metropolitan, i finalisti erano persone che Keppel aveva raccomandato. La Carnegie conferì pieni poteri a chi sapesse usare e sviluppare programmi adeguati. Il sostegno della Carnegie e la convocazione di professionisti, incrementarono l’interazione tra i musei. Anche se isolati, i musei entravano in contatto con i professionisti attivi nella riforma, in seguito alle donazioni della Carnegie. Da quest’analisi se ne dedusse come i programmi della Carnegie stimolavano l’interazione informale tra i professionisti museali piuttosto che i rapporti formali tra i musei. Inoltre i suoi programmi aumentarono il flusso di informazioni tramite l’incremento di ricerche, programmi formativi per i professionisti museali e sostegni economici per la pubblicazione di libri, periodici o guide, attirando l’attenzione su quei candidati che avevano avuto più successo, allargando la loro posizione. L’orientamento di Keppel era quello di delegare ad associazioni di esperti le decisioni relative alle richieste di finanziamento e allo sviluppo di programmi. A volte, lavorava attraverso organizzazioni formali, ma venne anche convinto dai suoi fiduciari a creare un ente meno formale: “Museum Education Advisory Group”. Nove erano membri dell’American Association of Museum (AAM) e cinque ne erano stati membri della stessa. Se ne posso confrontare 17 dirigenti museali con una lista compilata da Paul Sachs, anch’egli dirigente museale. Quella di Keppel si riferiva a coloro che avevano interesse nell’educazione e dipendeva dall’area di New York. Solo 4 delle 17 personalità di Sachs erano stati funzionari o consulenti AAM. Cinque della lista di Sachs non erano nemmeno membri dell’AAM. Durante una riunione del Museum Education Advisory Group, Cotton Dana raccomandò la creazione di filiali museali per far rivivere la capacità di attrazione dei musei, che definì “quasi insignificante”. Per Dana l’aumento delle entrate nei musei dai fondi pubblici, sarà evidente solo quando ci sarà un crescente contributo dell’educazione in dimensioni di quantità e qualità. I consulenti di Keppel furono costretti ad agire solo quando uno dei membri fece pressioni su di loro affinché venisse approvata la proposta di un National School Museum che avrebbe gestito il prestito di riproduzioni di oggetti d’arte alle scuole pubbliche. A questo proposito Keppel decise di nominare un consulente per studiare la questione, Paul Marshall Rea, direttore dell’AAM dal 1919 al 1921. Dall’analisi che fece Rea, ne risultarono una serie di analisi di regressione e rendimenti decrescenti sia per l’affluenza sia per le spese. Per Rea la soluzione era il modello di Dana, cioè decentralizzare i musei in piccole filiali di quartiere, che potessero raggiungere facilmente e direttamente le persone. Durante una riunione Rea, cercò di convincere la fondazione ad adottare diversi sistemi filiali ma Keppel spiegò che la fondazione non avrebbe finanziato mattoni e cemento ma solo programmi che poggiassero su basi sperimentali. Per Rea il più importante obiettivo dei musei d’arte era l’educazione del pubblico di massa e l’affermazione del problema dei musei, che si riferiva alla gestione scientifica delle strutture. Il suo contributo, a suo dire, era l’aver mostrato la visione futura della gestione scientifica museale. Rea venne autorizzato ad creare la prima filiale d’America, la “Pennsylvania Museum of Art” Di Philadelphia, l’8 maggio del 1931. Il suo ruolo educativo, i progetti dimostrativi, iniziò a considerare i musei come delle entità di istruzione popolare. Keppel controllò il suo gruppo consultivo per assicurarsi che rimanesse entro gli ampi confini assegnati, senza però fare nessuna pressione perché sponsorizzasse un piano particolare.

Il caso delle filiali dei musei evidenzia la capacità dei professionisti di muoversi nell’ambiente che circonda le organizzazioni in cui lavorano. L’esperimento del Pennsylvania Museum, nonostante l’osservanza della creazione di comportamenti interorganizzativi dell’ambiente della Carnegie e dell’AAM, riuscì ma durò poco perché fu collocata nel quartiere della 69° strada di Upper Darby, un sobborgo in rapida crescita. Il promotore della strada, John McClatchy le diede grandi aiuti economici e concesse l’uso di un edificio dell’Arts&Craft Community Center. Tra le condizioni di McClatchy, vi era che la filiale cambiasse frequentemente esposizione e che il museo assumesse una persona competente con l’incarico di controllare il posto e gestire le esposizioni per suscitare l’interesse dei residenti. Il compito fu affidato ad un architetto, Philip Youtz. Il museo di quartiere veniva aperto fino alle dieci di sera, compresa la domenica. La disposizione era simile a quella di un grande magazzino di successo con due grandi vetrine che si aprivano nella strada. Per evidenziare maggiormente l’apertura del luogo, Youtz abbatté i muri degli uffici amministrativi e incoraggiò lo staff ad andare in giro e parlare delle esposizioni in modo informale con i visitatori. Youtz vedendone il successo, alternò mostre di oggetti di uso comune con pezzi da museo convenzionali e arte moderna, per alzare il gusto culturale e sociale e di presentare programmi che suscitassero l’interesse della comunità. Nonostante il successo, il Pennsylvania fu colpito dai tagli al budget della città, e la stessa battuta d’arresto la ebbe McClatchy, non potendo poi sostenere nemmeno più le spese di assicurazione delle vetrine. Youtz chiese aiuto a Keppel per una nuova donazione. Ma la situazione economica del museo era veramente grave. Nel giro di un mese, il museo chiuse definitivamente. Kimball affidò a Youtz le esposizioni del museo centrale e girò quel che rimaneva delle donazioni alla Carnegie alle spese operative. Kimball riferendosi però al successo di quel esperimento, affermò che la creazione di quella filiale conteneva tutte le premesse perché il futuro sviluppo del servizio museale alla comunità seguisse le prospettive indicate da Rea. Quando ci furono i tagli del budget, Kimball protesse le attività fondamentali del museo a scapito dell’educazione pubblica. Quando la Grande Depressione peggiorò, furono la filiale e il programma educativo ad essere eliminati. Nel 1932, Youtz si scontrò contro i musei d’arte che istallavano le collezioni secondo i gusti e gli interessi dello staff e dei fiduciari e ammoniva che per continuare a ricevere sostegno pubblico, i musei avrebbero dovuto diventare più democratici, quindi configurare i propri edifici più come grandi magazzini che come palazzi rinascimentali. Egli trascurò anche la possibilità di creare una filiale in una zona di operai, in quanto ne dedusse che sarebbe stato un luogo riferito ad un pubblico indifferente all’arte.

Lo studio di tale ricerca, portò il processo istituzionale a porre attenzione sulla sua diffusione a livello locale, prendendo organizzazioni o aree geografiche come unità di analisi. L’idea fu che il museo d’arte era qualcosa di talmente scontato che qualsiasi grande città doveva possederne uno. Inoltre gli studi sulla diffusione istituzionale ne evidenziano che le forme organizzative più si diffondono e più ne ottengono legittimità, quindi l’istituzionalizzazione porta con sé la possibilità di cambiamenti sostanziali. Si dà importanza ai processi attraverso i quali le ideologie a livello societario modellano la forma delle nuove organizzazioni. Il movimento di riforma museale si riferì all’ideologia progressista per ottenerne efficienza e democrazia, ma vi fu anche uno spazio dedicato a conflitti e pressioni in quanto vi fu lo scontro per decidere quali fossero i programmi che l’equità rendeva necessari e quali fossero gli obiettivi su cui andava misurata l’efficienza. La caratteristica del caso dei musei fu la misura in cui la creazione di un campo nazionali si intrecciò agli sforzi di coloro che lavoravano nei musei per definire la propria professione e aumentarne la propria autorità.

Chi studia le istituzioni si dovrebbe concentrare sul ruolo giocato dalla professionalizzazione nell’istituzionalizzazione di nuove forme organizzative ed a quelli degli ambienti a livello di campo intorno a quelle forme. Ciò rivela un campo di conflitti dettati dall’interesse e a problematiche abbastanza rilevanti nella teoria istituzionalista (Powell e DiMaggio, 2000, pp. 359-392).

La trasformazione strutturale dell’industria americana.
Spiegazione istituzionalista delle cause del processo di diversificazione intrapreso dalle maggiori imprese tra il 1919 e il 1979
(Neil Fligstein)

Nel 1919 cento imprese degli USA operavano in un unico comparto industriale e nel 1979 tutte le imprese maggiori conducevano attività diversificate. La maggior parte fu attiva per l’intero periodo. Ci furono quelle imprese che conservarono grandi dimensioni e diversificarono l’attività e quelle che si ampliarono tramite la diversificazione. Il mutamento delle grandi imprese dipesero da un aggregato di azioni interne ed esterne all’organizzazione. Alcune organizzazioni modificarono le proprie strategie, altre, in campi organizzativi simili, non lo fecero. Vi sono quattro meccanismi che promuovono o inibiscono il mutamento organizzativo: il ruolo che strategia, struttura e distribuzione del potere rivestono nell’inibire il mutamento e nel promuovere l’inerzia dell’organizzazione; la turbolenza dei campi

organizzativi, in cui gli attori interessati sono legati alle proprie posizioni all’interno dell’impresa e articolano nuove strategie col potere di implementarle; nuove organizzazioni che accedono in campi già esistenti per darne un modello di azione alle altre; le forze dell’istituzionalizzazione. La ricerca di Neil Fligstein spiega come i processi nei quali si creano e trasformano i campi organizzativi riflettono l’azione dei quattro meccanismi; le teorie istituzionaliste sovrastimano il ruolo delle norme per creare campi organizzativi e sottostimano il potere degli attori nelle organizzazioni; gli istituzionalisti hanno accolto troppo presto spiegazioni del mutamento organizzativo basate sul mercato. Le organizzazioni operano in tre contesti nella sfera istituzionale: la strategia e struttura esistente, le organizzazioni comprese nel campo organizzativo e lo Stato. Ciascuna organizzazione mette in atto strategie, strutture, tecnologie e limiti che configurano e limitano l’azione, dovendo suddividere le proprie risorse su scopi specifici, anche se ciò conduce ad un conflitto sul modo di raggiungerli. La strutturazione interna dell’organizzazione è fonte di potere e vincolo all’azione, in cui l’autorità formale si riferisce al ruolo ricoperto all’interno dello struttura gerarchica, mentre quella informale si riferisce alle affermazione di potere degli attori e alle competenze che li autorizzano a gestire le risorse dell’organizzazione. Chi conserva la propria posizione di potere all’interno dell’organizzazione lo fa tramite l’autorità formale e informale. I mutamenti negli obiettivi si possono verificare solo quando un nuovo gruppo ottiene il potere sostituendo l’altro o quando chi lo detiene è interessato a modificare gli obiettivi organizzativi. Le altre organizzazioni che sono nell’ambiente posso influenzare le azioni di una data organizzazione tramite legami di rete o di dipendenza, in cui quest’ultima riguarda sia le risorse materiali sia rapporti sociali coinvolti nei processi di legittimazione, competizione e cooperazione. Se i concorrenti cambiano strategia, una data organizzazione può essere costretta a rispondere per mantenere o espandere la propria posizione. I campi organizzativi raggruppano tutte le organizzazioni significative degli attori di una determinata organizzazione e la sua stabilità ne determina la probabilità che in una data organizzazione se ne possa verificare un cambiamento. Se vi sono regole e ordini, il cambiamento ha poche possibilità di verificarsi, ma se i campi si stanno formando o disintegrando, il cambiamento può verificarsi. Quando un certo numero di attori si trovano d’accordo sul definire un proprio campo, allora si può dire che un campo è definito e più stabile. Poi vi sono i rapporti con lo Stato, cioè un insieme di organizzazioni formali che interagisce in modo molto simile rispetto alle altre organizzazioni. Lo Stato può imporre le regole del gioco in qualunque campo organizzativo, anche non è componente diretto di esso. Può mediare tra le organizzazioni del campo, può agire per stabilizzarlo e modificare l’ambiente più profondamente e sistematicamente delle altre organizzazioni. Definendo le regole del gioco in tutti i campi, lo Stato garantisce una continuità; se queste vengono modificate, gli attori possono manipolare le azioni delle organizzazioni del campo. A volte le azioni dello Stato provocano degli shock al sistema con conseguenze inaspettate. Le organizzazione possono controllare i campi in base a due principi: a seconda delle dimensioni dell’organizzazione, gli attori hanno diversi livelli di potere di condizionamento delle azioni degli altri componenti di un campo e nella misura in cui tutti i membri beneficiano della codificazione di regole stabili per la regolamentazione delle azioni legittime del campo, ci si aspetta una cooperazione. In questa concezione, rispetto alla teoria istituzionalista, la stabilità dei campi organizzativi dipende dalla capacità degli attori che hanno interesse a mantenere una specifica visione del campo. L’organizzazione interna, il campo organizzativo e lo Stato creano le condizioni che vincolano i comportamenti degli attori e offrono le occasioni per creare un comportamento innovativo; per far diventare tali condizioni produttive ed operative, bisogna che gli attori possano interpretare il proprio ambiente esterno e interno all’organizzazione, in modo da poter agire per sostenere e modificare le proprie organizzazioni. Perché si decida di cambiare un’organizzazione, bisogna che gli individui percepiscano la necessità e la fonte di quel cambiamento. Se gli attori di un’organizzazione riconoscono gli interessi delle altre organizzazioni e le loro azioni tengono conto del comportamento degli altri, non ci sarà probabilità di cambiamento. Se l’ambiente è regolato dallo Stato, la stabilità sarà più probabile. Un cambiamento organizzativo è presente quando coloro che ne sono responsabili devono aver capito l’esistenza di una nuova strategia e avere il potere di controllarla. Se i campi organizzativi sono turbolenti o non adeguatamente definiti, la possibilità che si verifichi un comportamento innovativo è elevata., anche se gli stati di shock fanno si che gli individui possano cercarne soluzioni adeguate basate sull’interpretazione degli avvenimenti, la posizione interna all’organizzazione e gli interessi di tale organizzazione.

La diversificazione tra le imprese statunitensi rappresentò un grande cambiamento, in cui economisti e storici dell’impresa ne analizzarono tre fattori di influenza di diversificazione: il primo, i mercati offrono alle imprese più opportunità di diversificazione ed esse le valutano; il secondo, le imprese lasciano i comparti industriali che crescono in modo lento e si inseriscono in comparti con un grande livello di espansione; il terzo, le imprese combinano i prodotti grazie ad investimenti e scelgono di investire in diversi comparti industriali per distribuire il rischio tra gli investimenti. Fino al 1920 la strategia delle imprese era controllare quanta più produzione fosse possibile di un’unica linea di prodotti. Vedere l’impresa come un portafoglio di investimenti implica una percezione del mondo nella sfera economica e una modalità di organizzazione.

L’oggetto di studio di Fligstein sono 100 maggiori imprese statunitensi dal 1919 al 1979, in cui si sono verificati momenti di stabilità e cambiamento. Si evidenzia come la trasformazione dell’industria americana abbia attenzionato lo sviluppo del capitalismo finanziario a spese di quello produttivo. I settori più dinamici, innovativi sono quelli in cui la trasformazione finanziaria è quella più incoraggiata. Il successo è legato all’abilità di ottenere una legittimazione istituzionale dei propri interessi. L’andamento oscillatorio dell’economia in quegli anni incoraggiò le imprese a riunirsi in cartelli. Tali cartelli erano illegali e i loro accordi erano contratti che non potevano essere impugnati, in cui le imprese non furono capaci di creare barriere all’entrata per i propri comparti industriali. La tattica di mercato si fondava quindi su due componenti: la leadership di prezzo dei maggiori produttori di un campo e l’integrazione verticale di un campo che assicurava alle imprese leader costi inferiori. L’integrazione verticale avrebbe permesso di controllare i processi di produzione assicurando fornitori e clienti tramite una forma funzionale di organizzazione, in modo da produrre prodotti limitati controllati grazie a una struttura gerarchica. Vi fu stabilità poiché le imprese maggiori imponevano il prezzo dall’alto della loro dimensione ed efficienza. Se le imprese più piccole abbassavano i prezzi, quelle più grandi potevano abbassarli ancor di più. La diversificazione portò ad una nuova prospettiva di vendita e marketing. Si voleva promuovere la crescita dell’impresa tramite l’incremento delle vendite di un ampio raggio di prodotti, quindi sviluppare nuovi mercati nazionali e multinazionali, differenziare i propri prodotti da quelli della concorrenza tramite la pubblicità e le differenze tra qualità e quantità, inserendo nuovi prodotti per proteggerla da fattori di stagnazione o declino dei mercati. Ma la componente rilevante fu produrre prodotti con immagini facilmente identificabili. Nel 1921 l’American Management Association istituì una direzione di vendite e cominciò a programmare riunioni in cui si chiedeva ai membri come stessero agendo per stabilizzare le vendite. Le risposte furono: diversificazione, trovare nuovi mercati per prodotti esistenti e pubblicità permanente.

La Grande Depressione mostrò il valore delle strategie di vendita e di marketing e, la diversificazione dei prodotti. La riduzione dell’attività economica provocò un shock nei campi organizzativi stabili in cui vi era un’alta strategia di produzione. A fronteggiare il periodo della Depressione, vi furono infatti le pratiche di diversificazione, soprattutto durante la fase di Depressione e il primo conflitto mondiale, tentando di differenziare i propri prodotti da quelli dei concorrenti, rivolgendosi a mercati oltreoceano e l’utilizzo di forme multi-divisionali come mezzo organizzativo. La diversificazione, apprezzata di più nel dopoguerra, rappresentò una strategia finanziaria, dal momento che rifletteva il fatto che la decisione di entrare in un nuovo mercato venga presa in base a criteri finanziari e non si preoccupi

dell’adeguatezza delle linee di prodotti. La decisione di fondersi nei mercati veniva presa indipendentemente dal grado di adeguatezza di un prodotto alle linee di prodotti esistenti nell’impresa. Negli anni Quaranta e primi anni Cinquanta vi furono procedimenti antitrust e dal 1950 in poi, tutte le fusioni verticali e orizzontali divennero problematiche, in cui le imprese si volsero alle fusioni associate o non, al prodotto. Ai campi organizzativi stabili, venne vietato l’assorbimento di nuove quote all’interno qualsiasi mercato e l’unica strategia efficace ai mercati, era proprio la diversificazione. Cambiando le regole, il Governo Federale, creò nuovi movimenti di fusione guidati da fattori di diversificazione.

Le strategie di crescita consistevano nell’utilizzare le attività esistenti per comprare altre società. Ma a partire dagli anni Sessanta vi furono nuove forze, in cui, le imprese fondate sulla dissociazione dei prodotti offrivano performance scarse, vi furono grandi divisioni, scarsi profitti. Poi gli imprenditori finanziari non sentivano più il bisogno di gestire le società acquistate. La strategia finanziaria non veniva praticata solo nelle grandi imprese ma da gruppi di individui che operano all’esterno delle strutture imprenditoriali impegnate in una qualsiasi forma di produzione, anche se voleva dire abbassare i prezzi e sacrificare l’investimento in nuovi impianti e ciò ne determinava un deterioramento dello stock di capitale. Non creavano nuovi posti di lavoro, ma erano impieghi finanziari che ne volevano aumentare i profitti a breve termine a spese della vitalità a lungo termine.

La struttura e gli scopi esistenti sono le forze d’inerzia in un’organizzazione e gli interessi degli attori che beneficiano di questi scopi. Ad esempio il Presidente di un’organizzazione percepisce i problemi di un’organizzazione in un determinato modo, una persona che lavora nella produzione vedrà problemi nella varia produzione, l’incaricato delle vendite e del marketing considererà la natura, la dimensione e l’estensione del mercato come cruciali per la sopravvivenza dell’organizzazione e il responsabile finanziario porrà alla sua attenzione il profitto delle attività. Di fronte ad una situazione di crisi, ognuno proporrà diverse soluzioni. Quando in un campo organizzativo vi è instabilità, le imprese guidate dai presidenti delle vendite, marketing e finanza, si spingono verso tutti quei processi che ne propongono diversificazione. Se le organizzazioni stanno modificando le proprie strategie, qualsiasi organizzazione sarà più propensa a imitarle. Nella diversificazione, si presta attenzione ai concorrenti, perché ne possono offrire esempi validi. Visto il successo avuto durante il periodo della Grande Depressione, molte imprese iniziarono a seguirne l’esempio. Gli effetti di inerzia si manifestarono nel periodo compreso tra il 1919 e il 1979, in cui le prime a seguire strategie di diversificazione furono le organizzazioni in cui le persone dovevano creare una nuova visione degli obbiettivi dell’organizzazione. Dal 1919 al 1939 il ruolo dei presidenti delle vendite e marketing fu più pronunciato e quando le imprese cambiarono strategia, il ruolo dei presidente sarebbe potuto declinare. Tra il 1948 e il 1959 il ruolo dei presidenti era causa di diversificazione verso strategie dissociate dal prodotto. Quando un vasto numero di imprese scelse quella strategia, il sostegno del potere presidenziale divenne meno importante.

In esame, come è noto, ci furono 100 imprese comprese nei periodi 1919, 1929, 1939, 1948, 1959, 1969, 1979, analizzando i dati raccolti nel momento precedente dell’entrata nell’impresa (dopo il 1919) e in momento successivo (se l’impresa ne fosse uscita). Tali dati venivano organizzati in dossier che ne analizzavano i cambiamenti. Le variabili furono: dominanza del prodotto, associazione al prodotto e dissociazione dal prodotto. La dominanza dal prodotto ne analizza che il 70% dei ricavi siano generati da un unico gruppo del comparto industriale. L’associazione al prodotto si ha quando le imprese producono in mercati di prodotti collegati o in loro estensioni e nessuna linea di prodotto ne rappresentava più del 70%. La dissociazione dal prodotto si ha quando le imprese sono impegnate in attività indipendenti per produrre una rilevante parte del loro ricavo. Ad esempio la “Ling Temco Vought”, creava missili guidati, produceva acciaio e aveva una compagnia di noleggio di automobili. Le variabili indipendenti si riferirono quindi, alle misurazioni condotte nel primo momento, 10 anni prima. La strategia dell’inerzia è una variabile dipendente. Mettere la strategia in un primo momento voleva dire prevedere la probabilità di un cambio di strategia. La misura della percezione/potere è data dal profilo del presidente dell’impresa all’inizio del processo. Dal 1919 al 1949, le grandi imprese erano dominate dal personale della produzione e dai fondatori. A partire dal 1939, cresce il personale delle vendite e del marketing che occupava la carica di presidente, e raggiunse il culmine nel 1959. Dal 1949 i presidenti finanziari sono arrivati a dominare le grandi imprese e intorno al 1979 formano il gruppo più numeroso. Questo permetteva di stabilire in quale misura un presidente abbia modificato la strategia della propria impresa secondo i propri interessi all’interno di questa impresa. La descrizione della carriera di ciascun presidente permise di ricreare il percorso nell’organizzazione. I valori si riferivano al primo periodo e furono suddivisi in quattro categorie: produzione, vendite e marketing, finanza e altro e tre variabili fittizie sono usate per indicare queste categorie, con il gruppo “altro” come categoria esclusa. Dal 1919 al 1948 fu calcolata un regressione lineare che indicava la probabilità che ne venisse adottata una strategia associata al prodotto. Dal 1949 al 1959 le imprese associate al prodotto erano troppo poche, quindi non vi fu un calcolo di parametri stabiliti della probabilità che le imprese avrebbero perseguito quella strategia (calcolo della regressione lineare binomiale di Gauss). Tra il 1948 e il 1979, invece, le variabili dipendenti prevedevano tre categorie, quindi si uso la tecnica lineare multinomiale. I casi in cui non vi erano dati sono stati cancellati nell’insieme delle regressioni.

Medie delle misure delle strategie nell’intervallo di 60 anni

Le organizzazioni crebbero fino a comparire nelle 100 maggiori organizzazioni, modificando le proprie strategie. Anche quelle rimaste nell’elenco modificarono le proprie strategie, con un tasso più basso. Le imprese meno propense a cambiare erano quelle che non crescevano. La diversificazione fu la strategia usata dalle organizzazioni orientate ad una maggiore crescita, e si diffuse anche tra le altre quando i propri attori ne percepirono i relativi vantaggi. Le imprese che si stavano diversificando crescevano più rapidamente delle imprese che non seguivano questa strategia. Per far si che le imprese conservassero le proprie dimensioni e continuassero a crescere, i manager adottarono la nuova strategia e coloro che la usarono, si dovettero rassegnare ad avere incrementi inferiori o lenti. L’inerzia organizzativa sostenne le imprese, ma quando attori con diverse visioni degli obiettivi del’organizzazione riuscirono a ottenere il potere in diversi periodi di turbolenza, essi implementarono le loro nuove strategie. Infine,quando nel campo organizzativo vi sono spostamenti verso la diversificazione, quell’impresa diventava più propensa a fare lo stesso ed a cambiare strategie. La diversificazione fu uno strumento che portò un processo economico a legarsi alla collocazione delle organizzazioni nei campi organizzativi e un processo delineato dall’esistenza di campi organizzativi e shock subiti da quei campi nel corso del tempo (Powell e DiMaggio, 2000, pp. 418-450).

Isomorfismo organizzativo in Asia orientale

(M. Orrú, N. B. Biggart e G. G. Hamilton)

La scuola neoistituzionalista ha accumulato diversi campi di conoscenza su molti aspetti della società occidentale, ma successivamente trova largo spazio anche in tale ricerca formulata da Orrú, Biggart e Hamilton sullo sviluppo e l’organizzazione del capitalismo industriale in Giappone, Taiwan e Corea. L’analisi neoistituzionalista attira l’attenzione sugli ambienti istituzionalizzati, sui mondi normativi socialmente creati in cui si trovano le organizzazioni. Tale ricerca poggia su tre assunti: il primo assunto è l’analisi istituzionale che rifiuta di privilegiare un fattore esplicativo rispetto ad altri. Per capire lo sviluppo di un paese, non bisogna solo capire la sua cultura o la competitività di mercato. Tali paesi sono confuciani, eppure la sola religione non ne spiega la sua struttura economica. A ciò si lega anche il principio capitalistico dell’economia come azione razionale orientata al massimo profitto che non è capace di spiegare la differente organizzazione economica nei tre paesi. Tali modelli per essere efficienti devono essere socialmente creati e le imprese devono tenere presente il contesto istituzionale in cui operano e conformarsi ad esso. Biggart avvia quattro assunti, rifacendosi alla concezione weberiana, in cui vi deve essere presente che: l’azione economica è sempre un’azione sociale, deve essere all’interno del quadro istituzionale, la logica delle istituzioni ha un ruolo centrale per capire le azioni sociali e l’analisi neo-istituzionale si sviluppa su molti livelli.

Il secondo assunto è che considerare l’organizzazione economica come all’interno di un quadro istituzionale di un dato paese equivale a sostenerne il suo isomorfismo rispetto a quel quadro. Le pressioni ambientali plasmano le organizzazioni, ed esse con tempo, diventano simili dal punto di vista strutturale. Il neoistituzionalismo quindi ne evidenzia la varietà dei capitalismi e questo significa che è un errore considerare lo sviluppo di Corea e Taiwan inferiore rispetto a quello del Giappone.

Il terzo assunto è che nonostante le differenze nazionali, tale ricerca ne trova tratti comuni, ovvero tra i paesi non vi è contrasto tra la logica dell’efficienza di mercato e quella delle istituzioni. Le logiche convergono nel controllare le forme organizzative e gli adattamenti delle istituzioni non fanno perdere efficienza alle imprese, anzi, i tratti istituzionali sono il fattore rilevante del loro successo economico.

L’isomorfismo competitivo è significativo in quei campi in cui vi è libera concorrenza e non ci sono barriere, mentre quello istituzionale, va ricercato tra le organizzazioni che ne vogliono potere politico e legittimità istituzionale. Nei tre paesi i ricercatori prendono in analisi il gruppo d’affari (business group) a cui le imprese appartengono. La dimensione dei gruppi di affari varia da paese a paese, in cui la più alta concentrazione è in Giappone, in cui se ne prese in esame sei maggiori gruppi che operano in più mercati (kigyo shudan), dieci maggiori gruppi industriali e finanziari indipendenti (keiretsu). In Corea sono più numerosi ma piccoli in una dozzina di imprese a dimensioni medie, specificatamente cinquanta maggiori gruppi industriali (chaebol). Taiwan è più decentrata, con gruppi di sette/otto imprese e con poche centinaia di addetti per ogni impresa, novantasei gruppi industriali (jituanqiye). La diversa dimensione dei gruppi è legata alla diversa struttura interna dei gruppi e da ciò se ne osserva il processo di isomorfismo tra gruppi e paesi d’appartenenza, in cui il Giappone ha un capitalismo comunitaristico, la Corea uno patrimoniali stico e Taiwan familistico. Quello comunitaristico nasce dal fatto che i gruppi economici sono formati da un’impresa madre che integra verticalmente un’insieme di imprese minori che appartengono allo stesso settore e l’integrazione deve oscillare tra solidarietà e partecipazione, il potere è esercitato dal gruppo e gli investimenti tramite le banche appartengono al gruppo stesso. A differenza dei gruppi operanti in più mercati, i gruppi indipendenti rappresentano una rete di imprese integrate verticalmente appartenenti ad un unico settore. Vi sono due tipi di configurazione all’interno dei gruppi industriali giapponesi: la prima, stabilisce legami orizzontali tra settori industriali non competitivi, che producono una comunità di eguali o quasi, in cui in queste comunità non vi è dominanza, ma tutte le imprese esercitano un controllo collettivo reciproco; nella seconda, vi è un andamento verticale caratterizzato da rapporti gerarchici tra imprese riferendosi sia a legami di produzione sia di status. Nei rapporti tra imprese uguali e disuguali, la generosità e la buona fede sono un dovere, in cui il potere è localizzato nel gruppo. In quello patrimonialistico, ci sono molti gruppi di affari, meno articolati di quelli giapponesi con un potere accentrato sul capo fondatore o nella sua famiglia. L’internalizzazione dei processi produttivi e delle altre transazioni rappresenta la differenza tra i gruppi industriali giapponesi e quelli sudcoreani, in cui quest’ultimi hanno una serie di attività economiche integrate sotto una struttura gestionale unificata e centralizzata, mentre quelli giapponesi, rappresentano associazioni di imprese, alcune legate di più rispetto alle altre, in cui il controllo è distribuito nella rete di imprese. Ha un mercato azionario poco sviluppato ed i finanziamenti sono concessi dalle banche di proprietà statale, in modo che lo Stato possa influenzare le linee politiche industriali e la struttura organizzativa dei gruppi. Infine Taiwan ha gruppi meno sviluppati, più piccoli ed a conduzione familiare anche per la dimensione finanziaria. I gruppi taiwanesi hanno diverse caratteristiche organizzative isomorfiche che li differenziano da quelli giapponesi e coreani, in cui solo il 10% di tutte le imprese affaristiche sono società per azioni e il 40% dei 96 gruppi comprende una o più imprese quotate. Prevale invece, quello poggiato sul modello proprietario del controllo privato familiare. Qui vi è una scarsa strutturazione delle imprese e negli effetti provocati dal diritto ereditario, nel ruolo della famiglia e dello Stato. Poggiano, in gran parte, sul finanziamento fuori-borsa, in cui le istituzioni finanziarie forniscono il 31,2% dei fondi delle imprese, sotto forma di prestiti operativi a breve termine. Il diritto ereditario, in tale paese, non prevede benefici per il primogenito e il patrimonio paterno viene suddiviso in parti uguali tra tutti i figli. La famiglia è centrale e propone la conservazione di valori patriarcali come la solidarietà e la difesa della reputazione dei suoi membri, permettendo la rapida mobilitazione della famiglia negli impegni d’affare presi dai suoi membri. Il carattere non strutturato dei gruppi industriali taiwanesi ha diverse fonti istituzionali, tra cui, la prima è il sistema cinese per cui tutti i figli hanno uguale diritto all’eredità paterna, in modo da favorire la frammentazione dei beni familiari da una generazione all’altra; la seconda, è la centralità dei rapporti familiari nelle attività commerciali, che consente di creare una nuova impresa immediatamente grazie al consorzio di risorse finanziarie e umane della famiglia allargata; la terza è una politica statale di non interferenza nel settore privato, poiché le forze del mercato dovrebbero essere lasciate a se stesse e la concorrenza è maggiore in presenze di varie piccole imprese. Attraverso la flessibilità delle proprie strutture organizzative le imprese taiwanesi si sono adeguate ai mutamenti della domanda nel settore tessile, pellami, applicazioni elettriche e prodotti di piccola metallurgia.

Il metodo di analisi si basa sul fatto che il modello astratto del capitalismo non ha aspetti sufficienti per predire i tipi di società che si formano e non consente di ipotizzare l’esistenza di molteplici capitalismi, quindi il mercato non esiste per legge di natura ma è socialmente costruito, le varie economie si sviluppano secondo un contesto istituzionale e i rapporti d’affare ne devono garantire un ordine interno del mercato. Le imprese ricercano il massimo profitto e vi sono diversi sistemi di controllo, come lo Stato, comunità intermedie e famiglia, facendo in modo che la ricerca del profitto avvenga tramite strategie percepite come legittime per ottenere vantaggi nella concorrenza di mercato. I gruppi industriali dei tre paesi hanno diversi modelli organizzativi di proprietà, gestione, finanza e produzione e tale isomorfismo non solo conferma l’uniformità dei rapporti fra le imprese ma ne evidenzia le differenze esistenti tra loro. I gruppi affaristici sono troppo diffusi e troppo isomorfici per poter essere visti come risposte avversive ai fattori del mercato. Inoltre le molteplici istituzioni sociali di ciascuna società sostengono la creazioni di rapporti strutturati tra imprese e non spingono le organizzazioni verso l’idea occidentale di un’autonoma competizione tra imprese. Le imprese asiatiche operano in un ambiente istituzionale che presenta una struttura di vincoli, possibilità e di forme normative di azione economica. Questi rapporti rappresentano la formazione di processi istituzionalizzati, socialmente accettabili, di comportamento economico. I gruppi affaristici giapponesi mantengono tra le imprese rapporti di status definiti, ugualitari e altri gerarchici, in cui l’unità decisionale è il gruppo e il comando viene esercitato, non con l’imposizione ma tramite il consenso. Infine le decisioni vengono prese considerando ciò che è meglio per la collettività, non solo per le singole imprese, per quanto potenti possano essere. I gruppi sudcoreani, sono unità familiari patrimoniali, dominate dal patriarca e dai suoi figli, ma capaci di andare al di là della famiglia fino a includere manager professionisti esterni a essa. I gruppi taiwanesi rappresentano la rete familiare, non esprimendo la volontà di un singolo patriarca, ma gli interessi di un’estesa famiglia, in cui la divisione del patrimonio alla morte del patriarca ne vale come regola principale, assumendo più ruoli esecutivi per rafforzare la propria autorità. I gruppi industriali dell’Asia Orientale sono l’espressione e il prodotto dei tre principi organizzativi, mettendo in atto requisiti tecnici e istituzionali socialmente costruiti.

Il neoistituzionalismo è utile per richiamare l’attenzione sulle pressioni culturali, politiche e normative nell’ambiente e per analizzare le organizzazioni vulnerabili a queste pressioni. Le caratteristiche istituzionali non devono essere invocate solo per spiegare l’acquisizione di legittimità nelle organizzazioni, ma possono presentarsi cruciali per raggiungere l’adeguatezza tecnica e competitiva delle organizzazioni. I modelli di isomorfismo dei tre paesi orientali analizzati non solo aspirano a perseguire la legittimità, ma sono serviti a ordinare il mercato offrendo le norme che incanalano l’attività economica. Le imprese giapponesi che operano incuranti dei gruppi industriali di cui fanno parte creano confusione e ne impediscono una buona pianificazione economica e una buona strategia di investimenti. Anche i taiwanesi che non considerano gli interessi della discendenza creano disturbo nell’ordine di mercato. Tali economie prosperano perché hanno istituzionalizzato, con successo, i principi di un’attività di mercato adatta ai loro ambienti socioculturali e alle loro strategie di sviluppo economico (Bonazzi, 2008, pp. 485-489; Powell e DiMaggio, 2000, pp. 483-519).

ANALISI EMPIRICA SULLE ORGANIZZAZIONI COME CULTURE

Il processo di istituzionalizzazione può essere veicolato dalla cultura, cioè da regole, procedure e obiettivi che non prevedono, in primis, un’organizzazione formale, né il monitoraggio e sanziona mento di un’autorità centrale, ma sono, invece, il frutto di abitudini o convenzioni. La cultura, come affermò Malinowski, comprende “gli artefatti, i beni, i processi tecnici, le idee, le abitudini e i valori che vengono trasmessi socialmente” (Malinowski, 1971, pp. 131).

Un sistema di informazioni normative formalizzate, relative ai modi di agire, pensare e sentire praticati in una data comunità, all’interno della quale vengono trasmesse e apprese. Ogni organizzazione ha una cultura, più o meno facilmente identificabile, più o meno distintiva. Esistono alcune convinzioni, valori, radicati e interiorizzati nella cultura organizzativa, definiti da Edgar Schein, che egli denomina come “assunti di base”, cioè valori, dati per scontati, proprio perché l’attore dell’organizzazione non riesce a vederli. La cultura è definita una variabile organizzativa forte perchè ha la capacità di spiegare vari comportamenti organizzativi che non derivano direttamente e meccanicamente dalla struttura. L’organizzazione influenza i comportamenti individuali anche perché al suo interno vi sono simboli, valori, assunti che, insieme alla struttura e al sistema dei ruoli, incidono sui comportamenti, per cui, la cultura organizzativa è “l’insieme coerente di assunti fondamentali che un dato gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato imparando ad affrontare i suoi problemi di adattamento esterno e integrazione interna, e che hanno funzionato abbastanza bene da poter essere considerati validi e perciò tali da essere insegnati ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi”.

Nella ricerca organizzativa, la tradizione etnografica ha vissute diverse vicende, di cui se ne possono individuare tre fasi: la prima in cui il metodo etnografico è usato in modo diffuso, a partire dalla ripresa delle proposte espresse dalla scuola di Chicago; la seconda, in cui il metodo viene tralasciato, e nella terza fase in cui riemerge prepotentemente e viene usato in modo esteso. Tra gli anni Quaranta e Sessanta, proprio mentre i metodi di ricerca godevano di un’età prolifica, e quando nell’ambito della sociologia si accreditavano le correnti quali l’interazionismo simbolico e l’etnometodologia, la teoria organizzativa percorreva strade diverse e radicalmente opposte concentrandosi sulle dimensioni formali dell’organizzazione. L’opzione metodologica che privilegiarono gli studiosi impegnati nella ricerca organizzativa fu quantitativa, sostenuta anche dalla diffusione del computer quale strumento per portarla al termine. Nella ricerca etnografica, da diversi studiosi, fu utilizzato certamente il metodo dell’osservazione partecipante. Durante la diffusione della scuola neoistituzionalista, tra gli studi organizzativi più famosi che usarono il metodo dell’osservazione partecipante, vi fu certamente quello di Dalton nel suo libro “Uomini che dirigono”. La ricerca prese come punto di analisi quattro aziende: Milo Fractionating Center (8.000 dipendenti), Fruhling Works (20.000 dipendenti), Attica Assembly Company (2.600 dipendenti) e la Rambeu Mart (magazzino con 400 dipendenti). Vi furono analizzate sei problematiche: l’attenzione a realizzare alti livelli di efficienza, i rapporti tra line e staff, le interpretazioni date ai contratti da parte dei sindacati e dalla direzione di stabilimento, i modelli di promozione gerarchica, il rapporto tra ricompense formali e informali, e infine, i conflitti psicologici e morali dei dirigenti preoccupati di dover conciliare le esigenze dei subordinati con quelle dei colleghi. Dalton ne voleva analizzare sia le dinamiche tra potere formale e informale sia il concetto di cricca e le sue tipologie riscontrabili in un’organizzazione, andando a scoprire quali erano le cricche influenti (orizzontali, verticali o causali). Dalton sottolineò l’importanza di ricercare amici intimi, cioè non ricorrere ai vertici aziendali per ottenere appoggio e approvazione durante la ricerca, ma creare una rete di conoscenze personali, attraverso persone fidate. Dalton fu impegnato in qualità di partecipante presso la Milo e la Fruhling, in cui aveva posizioni di staff, in modo da potersi muovere all’interno dell’azienda con ampi gradi di discrezionalità. Ma presenziava anche a varie riunioni, descrivendone i ruoli e le schede di valutazione potenziale. L’osservazione partecipante permette a Dalton di praticare “l’intervista colloquiale” cioè un lavoro di interazione verbale. Le relazioni e le attività sociali permettono a Dalton di indagare anche sull’attività che si svolgono anche al di fuori del contesto aziendale. Intrattenere e mantenere relazioni sociali, fu un modo per accedere ad argomenti quali lo sport, politica, donne, quindi di smorzarne ogni ipotetica tensione. Non ci sono regole precise o soluzioni codificate ai problemi che incontrerà il ricercatore, e dovrà riuscire a intuire quale distanza mantenere tra sé e il gruppo, sviluppandone però rapporti di intimità ispirati dalla prudenza.

Un altro studio di carattere sociologico, che affrontò l’analisi della cultura organizzativa, fu quello di Burton Clark in “The Distinctive Collage: Antioch, Reed and Swarthmore”. Il centro d’analisi erano tre prestigiose istituzioni accademiche americane, in cui il concetto centrale era la saga organizzativa, in cui la saga è un racconto nel quale un gruppo, in un dato momento, ha fermamente creduto. Ne descrive la sequenza degli avvenimenti, attori e l’interpretazione scritta o orale dei fatti. L’elemento di fede è decisivo poiché senza esso, gli avvenimenti e le persone sono solo storia. Con lo svilupparsi di un credo, un momento della storia si riferisce ad una definizione di identità per il gruppo. Clark definisce anche un nuovo concetto di saga organizzativa, ovvero, come l’insieme unificato di credenze di un gruppo definito, che trae origine dalla storia, vanta imprese straordinarie e ha valore sentimentale per il gruppo. Quando si è in presenza di un’organizzazione nascente, e non vi è la definizione di ruoli organizzativi, si impone la personalità di un leader il quale sceglierà la missione dell’organizzazione e le persone che la sosterranno. Quando un’organizzazione ha delle fasi di decadenza, la saga può trovare terreno fertile, in cui comportamenti routinizzati, istituzionalizzati degli attori mettono in pericolo la sopravvivenza dell’organizzazione. La saga, infine, può nascere nella stabilità di un’organizzazione che prelude a una fase evolutiva dell’organizzazione stessa. L’interesse per le saghe è legabile a quell’interesse descritto da Selznick verso il concetto di carattere fondante l’identità dell’organizzazione e assimilabile al concetto stesso di cultura. (Piccardo e Benozzo, 1996, pp. 57-68; Powell e Di Maggio, 2000, pp. 195-208; Pichierri, 2005, pp. 119-123; Ferrante e Zan, 2012, pp. 95-103)

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI




Bagnasco A., Barbagli M. e Cavalli A. (2012), Corso di Sociologia, Il Mulino, Bologna.
Bonazzi G. (2008), Storia del pensiero organizzativo, FrancoAngeli, Milano.
Ferrante M. e Zan S. (2012), Il fenomeno organizzativo, Carocci Editore, Roma.
Malinowski B. (1971), Il concetto di cultura, a cura di Rossi P., Einaudi, Torino.
Pennisi C. (1998), Istituzioni e cultura giuridica. I procedimenti come strutture di comunicazione, Giappichelli Editore, Torino.
Piccardo C. e Benozzo A. (1996), Etnografia organizzativa, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Pichierri A. (2005), Introduzione alla sociologia dell’organizzazione, Editori Laterza, Roma-Bari.
Powell W. W. e DiMaggio P. J. (2000), Il neoistituzionalismo nell’analisi organizzativa, Edizioni di Comunità, Torino.
Strati A. (1996), Sociologia dell’organizzazione. Paradigmi teorici e metodi di ricerca, NIS Editore, Roma.

 

 

Claudia Coco
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Claudia Coco è attualmente sociologa e collaboratrice ENASC (Ente Nazionale di Assistenza Sociale ai Cittadini), ANPIM (Associazione Nazione delle Piccole e Medie Imprese) e UNSIC (Unione Nazionale Sindacale Imprenditori e Coltivatori) presso la 5° Circoscrizione di Catania. Laureata in sociologia presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali di Catania con tesi in Sociologia Urbana “Pratiche e approcci del vivere la città. Azioni, spazi e differenze “nei” quartieri di San Berillo”. Si occupa attualmente di studi socio-antropologici presso i quartieri di San Berillo in Catania. Per informazioni e contatti: clacoco28 [chiocciola] gmail punto com