Vita dura per la maggioranza degli studenti nella Roma antica. Apprendevano a leggere e a scrivere da maestri lumacosi, esasperanti e facili allo staffile; quando poi passavano alla scuole superiori, in genere quelle di retorica, imparavano a dire bene cose che non li interessavano affatto. Nell’eta di Cesare, il progresso e il crescente benessere avevano inculcato nei romani una certa pigrizia, e i genitori che ai tempi d’oro della Repubblica erano stati dei veri educatori, indaffarati dalle mille attivita richieste dall’ozio, preferivano ormai affidare i figli a un pedagogo (in genere uno schiavo greco erudito). Un lusso, quest’ultimo, che non tutti però potevano permettersi; cosicché i cittadini più poveri, decisi anche loro a volerne sapere di più, non potevano far altro che mandare i propri figli alle scuole private, spendendo una retta di otto assi al mese. Questo tipo di scuola era gestito, in genere, da insegnanti che dopo aver fatto gli scribacchini presso qualche avvocato di fama, arrotondavano lo stipendio angariando i giovanetti. Il maestro plagosus (colui che picchia) era il ricordo scolastico più vivo del poeta Orazio. Altri tempi e altri metodi.
Le lezioni duravano sei ore: comincia vano al mattino presto e consentivano un intervallo all’ora di pranzo. Il litterator era praticamente il maestro ele- mentare; alla sua scuola si imparava a leggere e a scrivere, ricopiando per mesi le lettere dell’alfabeto, magari senza capirne il significato. Il calculator insegnava a far di conto e il notarius a stenografare. Finito questo ciclo di studi, si andava alla scuola del grammaticus, dalla quale, dopo aver passato qualche anno ripetendo pappagallescamente brani di letteratura greca e latina, si usciva con una sufliciente conoscenza delle due lingue. I romani erano praticamente un popolo bilingue, e i giovani apprendevano volentieri il greco, poiché sembra fosse suprema raffinatezza usarlo nelle dichiarazioni d’amore.
Insomma, non si insegnava neppure a diventare bravi avvocati, ma principalmente a parlar bene. Sembra proprio che il valente Cicerone, più che dei suoi maestri (Filone e Molone, per escmpio), dovette imparare a fidursi unicamente della propria testa.
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