Positivismo e il suicidio. Intorno alla metà del XIX secolo il postulato formulato dalla psichiatria classica sul suicidio venne messo in discussione: in tal modo, il suicidio non era più considerato un atto compiuto da persone non sane di mente. Esquirol e Brierre de Boismont, nel 1856, furono i primi studiosi a domandarsi se tale gesto potesse essere compiuto solo da insani. A seguire, nel 1885, William Wynn Westcott classificò tre tipi di suicidio pertinenti a stati mentali “sani”, e cioè: temperamento passionale o collera; scelta presa di fronte a due alternative, scegliendola per essere la meno odiosa; scelta intenzionale, come ad esempio avviene in campo religioso o militare per motivi di fanatismo.
Proprio in questi anni di diffusione del positivismo, le cause del suicidio iniziarono ad essere ricercate al di fuori dell’individuo stesso, ovvero nella società. Altri studiosi, come ad esempio Guerry e Quètelet, iniziarono a comparare i dati statistici sul suicidio fra nazioni ed etnie diverse. Fu così che col passare del tempo, le ricerche in merito a tale tematica presero due orientamenti distinti che divennero tradizioni metodologiche tutt’oggi vive: quella psicologica, basata sull’analisi di situazioni individuali; e quella sociologica, fondata sulle statistiche ufficiali divise per città, regioni, stati e aree geografiche.
Le ricerche
Le ricerche in merito al suicidio che si fondono soprattutto sull’uso delle statistiche sono schematizzabili in tre fondamentali scuole ideologiche: demografica, influenzata dal pensiero di Johann Peter Sussmilch su quello di Thomas Robert Malthus; probabilista, tenuta dai storici che vanno a riprendere le teorie del famoso matematico e scienziato Pierre Simon marchese di Laplace tramite l’opera di Lambert A. Quételet; igienista e statistico medica, che si rifà agli “idéologues” francesi fra i cui maggiori rappresentati va ricordato Alexandre J. B. Parent Duchatelet. Queste tre correnti e, in particolare le ultime due, furono rielaborate dagli “statistici morali” che andarono a studiare il suicidio da un punto di vista sociologico, in quanto convinti che esso andasse a costituire una vera e propria minaccia per l’integrità della società futura. Tra loro i più importanti sono l’italiano Enrico Morselli e Jaques Bertillon, ai quali poi andrà ad ispirarsi Émile Durkheim.
Così come la sociologia del suicidio del XX secolo si fonda sulle opere di Durkheim, quella di quest’ultimo può essere meglio compresa solo se si analizza attentamente il contesto culturale che caratterizza la sua epoca. Durkheim può essere considerato come il più grande sintetizzatore delle tesi sul suicidio come fenomeno sociale grazie anche alla sua opera intitolata, appunto, Il Suicidio – Studio di sociologia, pubblicata nel 1897. L’autore si provò a controbattere in maniera definitiva l’impostazione iniziale che vedeva il suicidio come gesto di libertà contro una società del tipo ‘repressiva’. Rifacendosi a Quételet e a Morselli, mise in secondo piano quelli che erano i fattori individuali, al fine di privilegiare quelle che erano le motivazioni di natura sociale, facendolo in un modo sistematico al punto che lo studio del suicidio è finito col diventare una base e una prova per esporre le sue idee in merito alla società e il metodo positivistico e sociologico stesso.
Emile Durkheim e il positivismo
Nella sua opera Le Suicidie. Étude de Sociologie, Durkheim dà una prima, seppur incompleta, definizione del suicidio enunciandolo così: “Si chiama suicidio qualsiasi tipo di morte che derivi mediatamente o immediatamente da un atto positivo o negativo compiuto dalla vittima stessa”. Appurata l’intenzionalità dell’atto e il certo sacrificio della vita, va a proporre poi una più completa e risolutiva definizione: “Si chiama suicidio qualsiasi tipo di morte che derivi direttamente o indirettamente da un atto positivo o negativo compiuto dalla vittima stessa, la quale sapeva che esso doveva produrre tale risultato”. Il sociologo francese, su quella che è la base delle sue ricerche in merito al tasso di mortalità-suicidio, afferma che all’interno di ogni società, in un determinato momento della propria storia, vi è una determinata tendenza al suicidio. Ciò che viene con certezza escluso, però, è che tale tendenza dipenda dall’insieme di stati individuali, così come essa non costituisce uno stato sui generis della collettività; egli ne conclude che il suicidio, in quanto fenomeno che si verifica all’interno di ogni società, deve essere oggetto di studio della sociologia come scienza.
A questo punto appare evidente il nesso che l’opera in questione riesce a ribadire tra metodologia positivistica e ‘approccio’ sociologico positivistico. Il suicidio, infatti, è la prima opera che riesce a conciliare una parte teorica e una prettamente empirica, stante l’interpretazione tipologica di Durkheim, che viene facendo la sua ricerca svolgendovi quesiti di ordine quantitativo e qualitativo, laddove egli si avvale della scoperta di variazioni che definiscono i fenomeni, ampliando il quadro scientifico di riferimento, cioè lo schema causa-effetto che dominava il panorama delle scienze fino a quel momento. A questo schema Durkheim sostituisce l’analisi multivariata, introducendo variabili intervenienti per spiegare il fenomeno o insieme di variabili dipendenti ( effetti), nel momento in cui individua le cause (variabili indipendenti).
Lo svolgimento della ricerca di Durkheim segue quindi uno schema di pratica della ricerca empirica che mostra un ragionamento controllabile, pubblico e ripetibile, stante il continuo riferimento ai dati. Con Il suicidio la ricerca positivistica diviene veramente operativa e vanta uno schema flessibile di riferimento che tende a influenzare le interpretazioni prevalenti del fenomeno, ribadendo l’importanza di fornire una interpretazione sociologica che si differenzia da quella data, fino ad allora, dalla statistica sociale.
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