Vita e pensiero di Antonio Gramsci
Antonio Gramsci (Ales, 22 gennaio 1891 – Roma, 27 aprile 1937) è stato un politico, filosofo, giornalista e critico letterario italiano.
I suoi scritti – nei quali studiò e analizzò la struttura culturale e politica della società – sono considerati tra i più originali della tradizione filosofica marxista. Uno dei suoi contributi principali fu il concetto di egemonia culturale, secondo il quale le classi dominanti impongono i propri valori politici, intellettuali e morali a tutta la società, con l’obiettivo di saldare e gestire il potere intorno a un senso comune condiviso.
Tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia (1921), fu incarcerato dal regime fascista di Mussolini nel 1926. Nel 1934, in seguito al grave deterioramento delle sue condizioni di salute, gli venne concessa la libertà condizionata e fu ricoverato in clinica, dove passò gli ultimi due anni di vita.
Antonio Gramsci nasce il 22 gennaio del 1891 ad Ales, in provincia di Cagliari, da Francesco Gramsci e Giuseppina Marcias. Tre anni dopo la sua famiglia si trasferisce a Sòrgono (Nuoro) dove il piccolo Antonio frequenta un asilo di suore. Una caduta gli provoca una malattia cronica deformante che causa l’incurvamento della spina dorsale, le cure mediche risultano inutili. Nel 1897 il padre viene incarcerato per irregolarità amministrative. Questi fatti lo segneranno per tutta la vita.
Nel 1902, conseguita la licenza elementare, deve affiancare il lavoro allo studio per aiutare la famiglia, in gravi difficoltà economiche. Nel 1908 si trasferisce a Cagliari per seguire il liceo. In questo periodo vive in casa del fratello Gennaro, segretario della sezione locale del Partito socialista. Questa è la stagione in cui a Cagliari cominciano i primi movimenti sociali, fatto che influisce profondamente sulla sua ideologia. Il giovane Gramsci legge moltissimo e si distingue per i suoi vivi interessi culturali, in particolare è affascinato da Croce e da Salvemini.
Nel 1911 si trasferisce a Torino, avendo vinto una borsa di studio per la Facoltà di Lettere e Filosofia. Il capoluogo piemontese in quel periodo è in pieno boom economico e industriale. La Fiat e la Lancia con i loro stabilimenti hanno chiamato dal Sud più di sessantamila immigrati in cerca di lavoro. Sono i tempi delle lotte di fabbrica e delle prime organizzazioni sindacali, i tempi in cui gli operai siedono ai tavoli con i rappresentanti dei padroni per trattare le loro condizioni. In questo fase della sua vita, studiando i processi produttivi nelle fabbriche, si impegna per far acquisire alla classe lavoratrice «la coscienza e l’orgoglio di produttori».
Negli anni successivi Antonio Gramsci si avvicina alla sezione socialista del capoluogo sabaudo e collabora attivamente con il «Grido del popolo», foglio comunista di Torino. Nel 1915 comincerà la sua collaborazione con l’«Avanti!» organo ufficiale del Partito socialista italiano. Questo è anche l’anno in cui l’Italia entra in guerra a fianco dell’intesa e Lenin invita i comunisti a trasformare «la guerra imperialista in guerra civile».
Nel 1917 scoppia la rivoluzione che, in ottobre, porterà al potere il Partito bolscevico in Russia. Intanto prosegue l’affermazione di Gramsci tra le fila del ramo piemontese del Partito socialista, tanto che diventa segretario della sezione esecutiva e comincia a dirigere il «Grido del popolo». Oltre a ciò si occupa per intero della stesura di «La città futura», una rivista a numero unico pensata per educare i giovani socialisti. Questa situazione continua fino al 1918 quando le pubblicazioni del foglio cessano e nasce la redazione piemontese dell’«Avanti!», a cui Gramsci prende subito parte.
Nel 1919 è tra i fondatori dell’«Ordine nuovo», settimanale che si schiera per l’adesione del Psi all’Internazionale comunista. Intanto in Italia comincia quello che poi verrà chiamato il “biennio rosso”. Gli operai danno sfogo al loro malcontento occupando le fabbriche in cui lavorano. In questo periodo di disordini, dalle pagine del giornale, Gramsci si batte per l’affermazione dei consigli di fabbrica, sostiene che questi debbano essere eletti da tutti i lavoratori, affinché gli operai assumano la funzione dirigente che spetta loro. Questa iniziativa viene plaudita anche da Piero Gobetti e dai suoi neo-liberalisti, non viene invece vista di buon occhio dai massimalisti del Psi.
Antonio Gramsci intanto si avvicina all’ala di sinistra del Partito socialista, guidata da Bordiga. Al 17° congresso nazionale del Psi, tenutosi il 25 Gennaio del 1921 a Livorno, il neonato Partito comunista d’Italia si scinde dal gruppo socialista. Gramsci viene quindi delegato alla direzione dell’«Ordine nuovo» che diventa il quotidiano di informazione del Pcd’I. La divisione interna alla sinistra è però grave, poiché avviene nel momento di maggiore pericolosità del movimento fascista. Nelle elezioni che seguiranno infatti i partiti di ispirazione socialista perdono voti, in favore del Movimento dei fasci, a cui si è rivolta la borghesia spaventata dalla politica violenta dei massimalisti.
Dal maggio del 1922 Gramsci comincia a viaggiare. Prima va a Mosca, dove la situazione si è stabilizzata dopo anni di guerra civile, come delegato del Partito comunista d’Italia nell’esecutivo dell’Internazionale. Qui potrà studiare da vicino la politica di Lenin e gli effetti della dittatura del proletariato. Oltre a questo in Russia si innamora di Giulia Schudt, che diventerà sua moglie e la madre dei suoi due figli. Intanto, in Italia, le squadre fasciste guidate da Benito Mussolini portano a termine la Marcia su Roma. L’anno successivo Gramsci sostiene le tesi dell’Internazionale contro quelle del segretario Bordiga, e, in novembre, viene invitato a Vienna per coordinare il lavoro del Pcd’I con quello degli altri partiti comunisti europei.
Il 1924 è un anno cruciale nella sua vita. In febbraio, secondo le sue indicazioni, viene fondato il quotidiano «l’Unità». Lui intanto entra nell’esecutivo del Pcd’I e diventa segretario generale. In aprile viene eletto deputato per la circoscrizione del Veneto e torna in Italia. Le stesse elezioni sono però vinte in larga misura dai fascisti. Giacomo Matteotti, che aveva denunciato evidenti casi di brogli e intimidazioni perpetrati dal movimento fascista ai danni dei votanti, viene ucciso.
Ciò provoca una violenta reazione parlamentare, alla quale Gramsci prende attivamente parte. Le forze di opposizione al fascismo, guidate da Giovanni Amendola, abbandonano il parlamento. Il Pcd’I propone un’azione diretta e l’appello alle masse, ma la sua mozione viene bocciata. Il re però riconferma la fiducia a Mussolini e al fascismo, e la protesta fallisce.
Al terzo congresso del Partito comunista d’Italia, tenutosi a Lione nel Gennaio del 1926, Antonio Gramsci presenta le tesi politiche stese insieme a Togliatti. Queste vengono approvate con il novanta percento delle preferenze. Dopo alcuni mesi però i suoi rapporti con l’Internazionale comunista cominciano a deteriorarsi, a causa di una lettera che scrive al Partito bolscevico in cui sottolinea la sua preoccupazione per le divisioni interne. Pur dando torto all’opposizione si discosta anche dai metodi della maggioranza guidata da Stalin. Togliatti si rifiuta di inoltrare ufficialmente la carta, e da ciò scaturisce una polemica accesa.
È nel novembre dello stesso anno che, in seguito alle leggi speciali emendate dal parlamento fascista contro le opposizioni, Gramsci viene arrestato e condotto a Regina Cœli. Condannato a cinque anni di confino sull’isola di Ustica, vi passerà solo sei settimane. Ciò nonostante riesce a organizzare sull’isola siciliana una scuola per i rifugiati politici, in cui gli studenti vengono divisi secondo il loro livello di preparazione. Trasferito a San Vittore, comincia a preparare un ampio studio sugli intellettuali italiani. Come scrive nelle lettere indirizzate alla sua vecchia scuola di Ustica, si vuole concentrare soprattutto sul teatro pirandelliano.
Alla fine di maggio del 1928 viene condannato a vent’anni quattro mesi e cinque giorni di reclusione. Nel luglio del 1929 viene trasferito nella colonia penale di Turi, nei pressi di Bari, per motivi di salute. Qui divide la cella con altri cinque detenuti politici.
Nel 1929 ottiene il permesso di scrivere in cella e inizia la stesura dei Quaderni dal carcere. Intanto comincia a sostenere posizioni lontane da quelle dell’Internazionale, inimicandosi i detenuti comunisti.
Il 1931 è l’anno in cui le condizioni di Antonio Gramsci cominciano a peggiorare in maniera precipitosa e inarrestabile. Inizialmente viene trasferito in una cella individuale dove si dedica allo studio e al mantenimento dei contatti con parenti e amici. Ad agosto sarà vittima di una grave emorragia.
Due anni dopo, per un ulteriore aggravarsi delle sue condizioni, viene trasferito nell’infermeria di Regina Cœli, e poi da qui in una clinica. Intanto falliscono i tentativi diplomatici fatti da Mosca per ottenere la sua liberazione. La vita in carcere è ulteriormente amareggiata dal deteriorarsi dei rapporti con il Pcd’I. Per questo motivo si trova totalmente isolato. Scrive in questo periodo: «Io sono stato abituato dalla vita isolata, che ho vissuto fino dalla fanciullezza, a nascondere i miei stati d’animo dietro una maschera di durezza o dietro un sorriso ironico».
Nel 1934 ottiene la libertà condizionata per motivi di salute. Quando però consegue la scarcerazione definitiva, nel 1937, le sue condizioni fisiche sono troppo compromesse.
Morirà in un letto d’ospedale il 27 aprile dello stesso anno. Le sue ceneri sono conservate al Cimitero degli Inglesi, a Roma.
Alla sua morte Antonio Gramsci ci lascia innumerevoli scritti, di argomento sia politico che culturale. Questi vengono considerati con grande attenzione dagli intellettuali italiani appartenenti ad ogni corrente. I brani considerati più importanti sono quelli prodotti durante la prigionia. L’opera Quaderni dal carcere è una raccolta delle pagine scritte dal 1929 al 1935, pubblicate postume con i titoli: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce; Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura; Il Risorgimento; Note su Machiavelli, la politica e lo Stato moderno; Letteratura e vita nazionale. Accanto a questi troviamo un’altra raccolta, quella delle Lettere dal carcere. Anche il fitto epistolario viene pubblicato postumo.
Nelle sue lettere ad amici e parenti possiamo comprendere la parte più privata del pensiero gramsciano, la sua lotta contro l’abbandono del carcere e il suo desiderio di stare vicino alla famiglia. Oltre a queste due raccolte troviamo una miriade di altri suoi scritti, alcune lettere, diversi articoli di giornale e un’intera rivista chiamata «La città futura», che sono stati minuziosamente raccolti e ripubblicati in volumi dopo la caduta del fascismo.
OPERE
I 33 Quaderni del carcere, non destinati da Gramsci alla pubblicazione, contengono riflessioni e appunti elaborati durante la reclusione; iniziati l’8 febbraio 1929, furono definitivamente interrotti nell’agosto 1935 a causa della gravità delle sue condizioni di salute.
Dopo la fine della guerra i Quaderni, curati dal dirigente comunista Felice Platone, furono pubblicati dall’editore Einaudi – unitamente alle sue Lettere dal carcere indirizzate ai famigliari – in sei volumi, ordinati per argomenti omogenei, con i titoli:
– Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, nel 1948
– Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, nel 1949
– Il Risorgimento, nel 1949
– Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, nel 1949
– Letteratura e vita nazionale, nel 1950
– Passato e presente, nel 1951
Antonio Gramsci – Pensiero
L’egemonia
Conquistare la maggioranza politica di un Paese vuol dire che le forze sociali, che di tale maggioranza sono espressione, dirigono la politica di quel determinato paese e dominano le forze sociali che a tale politica si oppongono: significa ottenere l’egemonia.
Vi è distinzione fra direzione – egemonia intellettuale e morale – e dominio – esercizio della forza repressiva: «Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a liquidare o a sottomettere anche con la forza armata, ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente».
La crisi dell’egemonia si manifesta quando, anche mantenendo il proprio dominio, le classi sociali politicamente dominanti non riescono più a essere dirigenti di tutte le classi sociali, non riuscendo più a risolvere i problemi di tutta la collettività e a imporre la propria concezione del mondo. A quel punto, la classe sociale subalterna, se riesce a indicare concrete soluzioni ai problemi lasciati irrisolti dalla classe dominante, può diventare dirigente e, allargando la propria concezione del mondo anche ad altri strati sociali, può creare un nuovo «blocco sociale», cioè una nuova alleanza di forze sociali, divenendo egemone. Il cambiamento dell’esercizio dell’egemonia è un momento rivoluzionario che inizialmente avviene a livello della sovrastruttura – in senso marxiano, ossia politico, culturale, ideale, morale – ma poi trapassa nella società nel suo complesso, investendo anche la struttura economica, e dunque tutto il «blocco storico», termine che in Gramsci indica l’insieme della struttura e della sovrastruttura, ossia i rapporti sociali di produzione e i loro riflessi ideologici.
L’egemonia nella storia italiana per Antonio Gramsci
Analizzando la storia italiana e il Risorgimento in particolare, Gramsci rileva che l’azione della borghesia avrebbe potuto assumere un carattere rivoluzionario se avesse acquisito l’appoggio di vaste masse popolari, in particolare dei contadini, che costituivano la maggioranza della popolazione. Il limite della rivoluzione borghese in Italia consistette nel non essere capeggiata da un partito giacobino, come in Francia, dove le campagne, appoggiando la Rivoluzione, furono decisive per la sconfitta delle forze della reazione aristocratica. Cavour
Il partito politico italiano allora più avanzato fu il Partito d’Azione di Mazzini e Garibaldi, che non seppe impostare il problema dell’alleanza delle forze borghesi progressive con la classe contadina: Garibaldi in Sicilia distribuì le terre demaniali ai contadini, ma gli stessi garibaldini repressero le rivolte contadine contro i baroni latifondisti. Per conquistare l’egemonia contro i moderati guidati da Cavour, il Partito d’Azione avrebbe dovuto «legarsi alle masse rurali, specialmente meridionali, essere giacobino […] specialmente per il contenuto economico-sociale: il collegamento delle diverse classi rurali che si realizzava in un blocco reazionario attraverso i diversi ceti intellettuali legittimisti-clericali poteva essere dissolto per addivenire ad una nuova formazione liberale-nazionale solo se si faceva forza in due direzioni: sui contadini di base, accettandone le rivendicazione di base […] e sugli intellettuali degli strati medi e inferiori».
Al contrario, i cavourriani seppero mettersi alla testa della rivoluzione borghese, assorbendo tanto i radicali che una parte dei loro stessi avversari. Questo avvenne perché i moderati cavourriani ebbero un rapporto organico con i loro intellettuali che erano proprietari terrieri e dirigenti industriali come i politici che essi rappresentavano. Le masse popolari restarono passive nel raggiunto compromesso fra i capitalisti del Nord e i latifondisti del Sud.
Il Piemonte assunse la funzione di classe dirigente, anche se esistevano altri nuclei di classe dirigente favorevoli all’unificazione: ma «questi nuclei non volevano dirigere nessuno, cioè non volevano accordare i loro interessi e aspirazioni con gli interessi e aspirazioni di altri gruppi. Volevano dominare, non dirigere e ancora: volevano che dominassero i loro interessi, non le loro persone, cioè volevano che una forza nuova, indipendente da ogni compromesso e condizione, divenisse arbitra della Nazione: questa forza fu il Piemonte», che ebbe una funzione paragonabile a quella di un partito.
«Questo fatto è della massima importanza per il concetto di rivoluzione passiva, che cioè non un gruppo sociale sia il dirigente di altri gruppi, ma che uno Stato, sia pure limitato come potenza, sia il dirigente del gruppo che esso dovrebbe essere dirigente e possa porre a disposizione di questo un esercito e una forza politica-diplomatica». Che uno Stato si sostituisca ai gruppi sociali locali nel dirigere la lotta di rinnovamento «è uno dei casi in cui si ha la funzione di dominio e non di dirigenza di questi gruppi: dittatura senza egemonia». E dunque per Gramsci il concetto di egemonia si distingue da quello di dittatura: questa è solo dominio, quella è capacità di direzione.
Le classi subalterne per Antonio Gramsci
Le classi subalterne – sottoproletariato, proletariato urbano, rurale e anche parte della piccola borghesia – non sono unificate e la loro unificazione avviene solo quando giungono a dirigere lo Stato, altrimenti svolgono una funzione discontinua e disgregata nella storia della società civile dei singoli Stati, subendo l’iniziativa dei gruppi dominanti anche quando ad essi si ribellano.
Il «blocco sociale», l’alleanza politica di classi sociali diverse, formato, in Italia, da industriali, proprietari terrieri, classi medie, parte della piccola borghesia, non è omogeneo, essendo attraversato da interessi divergenti, ma una politica opportuna, una cultura e un’ideologia o un sistema di ideologie impediscono che quei contrasti di interessi, permanenti anche quando siano latenti, esplodano provocando la crisi dell’ideologia dominante e la conseguente crisi politica dell’intero sistema di potere.
In Italia, l’esercizio dell’egemonia delle classi dominanti è ed è stata parziale: tra le forze che contribuiscono alla conservazione di tale blocco sociale è la Chiesa cattolica, che si batte per mantenere l’unione dottrinale tra fedeli colti e incolti, tra intellettuali e semplici, tra dominanti e dominati, in modo da evitare fratture irrimediabili che tuttavia esistono e che essa non è in realtà in grado di sanare, ma solo di controllare: «la Chiesa romana è sempre stata la più tenace nella lotta per impedire che ufficialmente si formino due religioni, quella degli intellettuali e quella delle anime semplici», una lotta che ha fatto risaltare «la capacità organizzatrice nella sfera della cultura del clero» che ha dato «certe soddisfazioni alle esigenze della scienza e della filosofia, ma con un ritmo così lento e metodico che le mutazioni non sono percepite dalla massa dei semplici, sebbene esse appaiano “rivoluzionarie” e demagogiche agli “integralisti”».
Anche la dominante cultura d’impronta idealistica, esercitata dalle scuole filosofiche crociane e gentiliane, non ha «saputo creare una unità ideologica tra il basso e l’alto, tra i semplici e gli intellettuali», tanto che essa, anche se ha sempre considerato la religione una mitologia, non ha nemmeno «tentato di costruire una concezione che potesse sostituire la religione nell’educazione infantile», e questi pedagogisti, pur essendo non religiosi, non confessionali e atei, «concedono l’insegnamento della religione perché la religione è la filosofia dell’infanzia dell’umanità, che si rinnova in ogni infanzia non metaforica». La cultura laica dominante utilizza la religione proprio perché non si pone il problema di elevare le classi popolari al livello di quelle dominanti ma, al contrario, intende mantenerle in una posizione di subalternità.
La coscienza di classe per Antonio Gramsci
La frattura tra gli intellettuali e i semplici può essere sanata da quella politica che «non tende a mantenere i semplici nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita». L’azione politica realizzata dalla «filosofia della prassi» – così Gramsci chiama il marxismo, non solo per l’esigenza di celare quanto scrive alla repressiva censura carceraria – opponendosi alle culture dominanti della Chiesa e dell’idealismo, può condurre i subalterni a una «superiore concezione della vita. Se afferma l’esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per limitare l’attività scientifica e per mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali».[67] La via che conduce all’egemonia del proletariato passa dunque per una riforma culturale e morale della società.
Tuttavia l’uomo attivo di massa – cioè la classe operaia, – non è, in generale, consapevole né della funzione che può svolgere né della sua condizione reale di subordinazione, Il proletariato, scrive Gramsci, «non ha una chiara coscienza teorica di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua coscienza teorica anzi può essere in contrasto col suo operare»; esso opera praticamente e nello stesso tempo ha una coscienza teorica ereditata dal passato, accolta per lo più in modo acritico. La reale comprensione critica di sé avviene «attraverso una lotta di egemonie politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell’etica, poi della politica per giungere a una elaborazione superiore della propria concezione del reale». La coscienza politica, cioè l’essere parte di una determinata forza egemonica, «è la prima fase per una ulteriore e progressiva autocoscienza dove teoria e pratica finalmente si unificano».[67]
Ma autocoscienza critica significa creazione di un gruppo di intellettuali,organici alla classe, perché per distinguersi e rendersi indipendenti occorre organizzarsi, e non esiste organizzazione senza intellettuali, «uno strato di persone specializzate nell’elaborazione concettuale e filosofica».
Il partito politico
Già Machiavelli indicava nei moderni Stati unitari europei l’esperienza che l’Italia avrebbe dovuto far propria per superare la drammatica crisi emersa nelle guerre che devastarono la penisola dalla fine del Quattrocento. Il Principe di Machiavelli «non esisteva nella realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di immediatezza obiettiva, ma era una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo, del condottiero ideale; ma gli elementi passionali, mitici […] si riassumono e diventano vivi nella conclusione, nell’invocazione di un principe realmente esistente».
In Italia non si ebbe una monarchia assoluta che unificasse la nazione perché dalla dissoluzione della borghesia comunale si creò una situazione interna economico-corporativa, politicamente «la peggiore delle forme di società feudale, la forma meno progressiva e più stagnante: mancò sempre, e non poteva costituirsi, una forza giacobina efficiente, la forza appunto che nelle altre nazioni ha suscitato e organizzato la volontà collettiva nazional-popolare e ha fondato gli Stati moderni».
A questa forza progressiva si oppose in Italia la «borghesia rurale, eredità di parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo sfacelo, come classe, della borghesia comunale». Forze progressive sono i gruppi sociali urbani con un determinato livello di cultura politica, ma non sarà possibile la formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare, «se le grandi masse dei contadini lavoratori non irrompono simultaneamente nella vita politica. Ciò intendeva il Machiavelli attraverso la riforma della milizia, ciò fecero i giacobini nella Rivoluzione francese; in questa comprensione è da identificare un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe, più o meno fecondo, della sua concezione della rivoluzione nazionale».
Modernamente, il Principe invocato dal Machiavelli non può essere un individuo reale, concreto, ma un organismo e «questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico: la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali»; il partito è l’organizzatore di una riforma intellettuale e morale, che concretamente si manifesta con un programma di riforma economica, divenendo così «la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume».
Perché un partito esista, e diventi storicamente necessario, devono confluire in esso tre elementi fondamentali:
1 – «Un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente organizzativo […] essi sono una forza in quanto c’è chi li centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente»
2 – «L’elemento coesivo principale […] dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice e anche, anzi forse per questo, inventiva […] da solo questo elemento non formerebbe un partito, tuttavia lo formerebbe più che il primo elemento considerato. Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è più facile formare un esercito che formare dei capitani»
3 – «Un elemento medio, che articoli il primo col secondo elemento, che li metta a contatto, non solo fisico, ma morale e intellettuale».
Gli intellettuali per Antonio Gramsci
Per Antonio Gramsci, tutti gli uomini sono intellettuali, dal momento che «non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens», in quanto, indipendentemente della sua professione specifica, ognuno è a suo modo «un filosofo, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale», ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali.
Storicamente si formano particolari categorie di intellettuali, «specialmente in connessione coi gruppi sociali più importanti e subiscono elaborazioni più estese e complesse in connessione col gruppo sociale dominante». Un gruppo sociale che tende all’egemonia lotta «per l’assimilazione e la conquista ideologica degli intellettuali tradizionali […] tanto più rapida ed efficace quanto più il gruppo dato elabora simultaneamente i propri intellettuali organici».
L’intellettuale tradizionale è il letterato, il filosofo, l’artista e perciò, nota Gramsci, «i giornalisti, che ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i veri intellettuali», mentre modernamente è la formazione tecnica a formare la base del nuovo tipo di intellettuale, un costruttore, organizzatore, persuasore – ma non assolutamente il vecchio oratore, formatosi sullo studio dell’eloquenza «motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni» – il quale deve giungere «dalla tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente».
Il gruppo sociale emergente, che lotta per conquistare l’egemonia politica, tende a conquistare alla propria ideologia l’intellettuale tradizionale mentre, nello stesso tempo, forma i propri intellettuali organici. L’organicità degli intellettuali si misura con la maggiore o minore connessione con il gruppo sociale cui essi fanno riferimento: essi operano tanto nella società civile – l’insieme degli organismi privati in cui si dibattono e si diffondono le ideologie necessarie all’acquisizione del consenso, apparentemente dato spontaneamente dalle grandi masse della popolazione alle scelte del gruppo sociale dominante – quanto nella società politica, dove si esercita il «dominio diretto o di comando che si esprime nello Stato e nel governo giuridico».
Gli intellettuali sono così «i commessi del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico, cioè: 1) del consenso spontaneo dato dalle grandi masse della popolazione all’indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante […] 2) dell’apparato di coercizione statale che assicura legalmente la disciplina di quei gruppi che non consentono».
Come lo Stato, nella società politica, tende a unificare gli intellettuali tradizionali con quelli organici, così nella società civile il partito politico, ancor più compiutamente e organicamente dello Stato, elabora «i propri componenti, elementi di un gruppo sociale nato e sviluppatosi come economico, fino a farli diventare intellettuali politici qualificati, dirigenti, organizzatori di tutte le attività e le funzioni inerenti all’organico sviluppo di una società integrale, civile e politica».
Il compito della “riforma intellettuale e morale” non potrà che essere ancora degli intellettuali organici, non cristallizzati, che la determineranno e organizzeranno, adeguando la cultura anche alle sue funzioni pratiche, addivenendo a una nuova organizzazione della cultura. Il partito comunista si pone, per Gramsci, come sintesi attiva di questo processo: intellettuale collettivo di avanguardia, la direzione politica di classe lotterà per l’egemonia. Il partito comunista, per Gramsci, è intellettuale collettivo; e l’intellettuale comunista è organico alla classe e dunque a questo collettivo perché fa parte del blocco storico-sociale che deve costruire il nuovo mondo.
MATERIALE SU ANTONIO GRAMSCI TRATTO DA:
-Wikipedia.it
-ItaliaLibri.net
- Colin Campbell | Sociologo Britannico - 29 Maggio 2024
- Howard Becker | Sociologo americano - 29 Maggio 2024
- Silvia Di Natale | Sociologa italiana - 26 Maggio 2024