Vita e Pensiero del sociologo Emile Durkheim, uno dei padri della sociologia moderna
Emile Durkheim – «Se esiste una verità che la storia ha reso indubbia, questa è proprio l’estensione sempre minore della porzione di vita sociale che la religione ricopre.»
Emile Durkheim – Vita
Emile Durkheim. Sociologo. Nasce a Epinal, in Lorena, il 15 aprile del 1858 in una famiglia di origine ebraica: il padre rabbino educherà Emile a una vita austera e disciplinata, dedita al lavoro e allo studio. Fin dall’infanzia matura l’ambizione dell’insegnamento: dopo aver frequentato il liceo, al terzo tentativo riesce a superare gli esami di ammissione all’Ecole Normale Superieure e nel 1879 si iscrive al suo primo anno.
Durante gli anni di studio Emile Durkheim lavora come insegnante prima al liceo (dal 1882 al 1887), poi all’università (nel 1887 riceve il suo primo incarico dall’istituto di Bordeaux). Nel 1885 compie un viaggio in Germania dove ha modo di avvicinarsi alle idee di Wundt e alla filosofia sociale tedesca. Inserito nell’atmosfera intellettuale molto vivace dell’accademia di Parigi, Durkheim inizia a delineare il suo percorso di studi, influenzato da personalità quali Fustel De Coulanges e Boutroux, suoi professori all’Ecole, e dalle trasformazioni sociali di quegli anni.
Ispirandosi al positivismo di Comte e insoddisfatto dalle analisi utilitariste di Herbert Spencer e dall’approccio deduttivo della filosofia morale tradizionale, Durkheim cerca di delineare una scienza positiva della società – la sociologia – che riconosca da una parte il ruolo della cornice morale intrinseca al tessuto sociale e dall’altra adotti una metodologia empirica che sviluppa i suoi studi dalle condizioni reali. Non a caso egli considera compito primario della sociologia lo studio empirico della società come organismo morale che permette la coesione sociale.
La maturazione di queste idee conducono Durkheim alla preparazione e presentazione de “La divisione del lavoro sociale” come tesi di dottorato all’accademia. Fin dalla sua discussione in sede d’esame nel 1893, l’opera costituisce una delle pubblicazioni più controverse e dibattute della sociologia: in essa Durkheim delinea la sua teoria dello studio della coesione sociale nella società ed espone gran parte dei temi che resteranno centrali lungo tutto il suo percorso di studi.
All’inizio dell’opera lo studioso si chiede come sia possibile nella società moderna assicurare la solidarietà tra i suoi membri quanto più diviene rapida e complessa la loro differenziazione. La premessa centrale dello studio è che la coesione e i codici morali debbano essere studiati empiricamente così come si presentano nella realtà e che ogni sistema sociale disponga di un ordinamento etico adatto per le sue specifiche condizioni.
La tesi centrale del libro è che, secondo Emile Durkheim, la società moderna assicura la coesione attraverso un genere di solidarietà, da lui definita organica, che differisce dalla solidarietà meccanica presente nelle società tradizionali. La prima, infatti, è fondata sullo scambio e sulle relazioni di reciproca interdipendenza delle parti (predomina quindi la coscienza individuale), mentre la seconda è centrata sulla condivisione di credenze e sentimenti collettivi (la coscience collective predomina sugli individui).
La transizione dei due ordinamenti morali è studiata empiricamente attraverso i sistemi di diritto vigenti nei due tipi di società: ossia del prevalere del diritto amministrativo (sanzioni restitutive), nel primo caso, o del diritto penale (sanzioni repressive) nel secondo.
Secondo Durkheim questo cambiamento conduce un vantaggio in termini di maggiori possibilità per l’uomo: l’individuo, infatti, non più vincolato dalla nascita ad una posizione sociale ascritta, sperimenta la libertà all’interno di un quadro sociale che regola la condotta e fornisce i fini socialmente desiderabili.
L’individualismo non è dunque una patologia della società moderna, bensì un nuovo tipo di ordinamento che presuppone la presenza di un’autorità morale e non il suo declino. I conflitti sociali esistenti in quegli anni, spiega Emile Durkheim, sono allora dovuti agli squilibri non ancora risolti nel passaggio tra i due tipi di solidarietà, in quanto deve ancora realizzarsi pienamente ed efficacemente il nuovo ordinamento morale della società moderna: l’individualismo etico (ossia la giustizia sociale, le pari opportunità e il criterio del merito).
La condizione patologica della società che risale alla mancanza di codici morali efficaci nel regolare le condotte degli individui è definita da Durkheim come anomia, concetto tra i più noti dell’opera durkheimiana.
Nel 1895 Emile Durkheim pubblica “Le regole del metodo sociologico” dove delinea la metodologia necessaria ad un vero studio scientifico della società. Partendo dalle idee comtiane sull’analogia tra società e natura come oggetto di studio, Durkheim cerca di allontanare la sociologia dalla filosofia sociale astratta e indica nello studio empirico la premessa necessaria dell’approccio sociologico. Sulla base di questo assunto, i fenomeni sociali devono essere studiati come fatti, ossia come cose osservabili e misurabili empiricamente.
Secondo il sociologo francese, infatti, l’organizzazione sociale è una realtà sui generis che non è costituita dalla somma delle sue parti, bensì le supera e le racchiude, reificandosi in fenomeni che hanno un carattere esterno all’individuo stesso e, come tale, coercitivo.
I fatti sociali, in quanto realtà sui generis, devono allora essere spiegati attraverso altri fatti sociali entro un rapporto causale o funzionale: nel secondo caso, quello che più ha esercitato influenza sugli sviluppi successivi della disciplina, una condotta sociale è spiegata in funzione dei bisogni generali dell’organismo sociale che va a soddisfare.
Un esempio di tale metodologia Emile Durkheim lo fornisce nella sua terza opera, “Il suicidio”, pubblicata nel 1897. Il lavoro non comporta da un punto di vista teorico grosse novità, ma costituisce uno dei primi tentativi sociologici di analisi empirica della società. Studiato fino ad allora solo in termini di volontà individuale, di razza o di patologia mentale, Durkheim considera il suicidio nella sua distribuzione sociale, come fatto sui generis indipendente dalle volontà individuali e lo pone in relazione ad altri fatti sociali.
In altre parole, egli ricerca l’eziologia sociale del fenomeno attraverso correlazioni statistiche con le caratteristiche dei diversi sistemi sociali europei. Considerando aspetti quali la religione e la famiglia, giunge alla conclusione che il suicidio è più frequente (correnti suicidogene) in quei paesi che presentano un’integrazione sociale meno sviluppata.
Durante gli anni successivi tiene un ciclo di lezioni sul socialismo e l’individualismo (raccolte nel libro “Lezioni di sociologia”), dove Durkheim critica l’appoggio socialista in quanto si limita alla sola regolazione economica della società senza essere accompagnata da una regolamentazione morale e politica. Di tendenze riformiste, non si impegna mai direttamente in politica se si esclude la sua presa di posizione a sostegno di Dreyfus nel noto scandalo di fine Ottocento in Francia.
Il primo decennio del XX secolo vede impegnato Emile Durkheim in più fronti. Nel 1902 entra alla Sorbona e nel 1906 viene nominato professore di ruolo della cattedra di Pedagogia (solo nel 1913 il nome del corso diverrà “Pedagogia e sociologia”). Per tutto il decennio prosegue nello sforzo dell'”Année Sociologique”, la rivista di sociologia fondata nel 1894 che vede fra i suoi collaboratori anche il genero Marcel Mauss: l’intento del periodico, il primo ad avere come oggetto le scienze sociologiche, è quello di fornire un quadro completo di tutta la letteratura prodotta nell’ambito degli studi sociali.
A questi impegni Emile Durkheim affianca anche la sua opera di ricerca: diversi sono i suoi articoli e studi (gran parte raccolti nelle edizioni postume de “L’educazione morale” e “Sociologia e filosofia”), i quali approfondiscono i temi già presenti nelle sue prime opere. In particolare egli ritorna sul tema della morale: se i fatti sociali sono tali per la loro esteriorità e coercizione, allora i fatti sociali hanno valenza etica e sono fatti morali.
Riprendendo il concetto di dovere kantiano, Emile Durkheim sottolinea, tuttavia, che un’altra caratteristica è centrale nei fatti morali: la loro desiderabilità. Gli individui, infatti, internalizzano la coercizione delle norme sociali in quanto li sentono anche come desiderabili. Il sociologo francese sostiene che l’unico oggetto al centro della morale a possedere l’ambivalenza di dovere e piacere non è che la società: infatti, la società si impone attraverso le sanzioni ed è desiderabile perché attraverso le sue norme l’individuo supera i suoi interessi egoistici per dirigersi verso la cooperazione sociale e la solidarietà (la società stessa), le quali gli permettono di sperimentare la vera libertà.
Solo la società, dunque per Durkheim, si presenta come persona morale distinta dagli individui e capace di trascendere gli interessi individuali: essa è allora desiderabile perché permette all’uomo di innalzarsi sopra la semplice esistenza animale e i suoi istinti egoistici per coordinare insieme gli sforzi e vivere una vita più libera dai bisogni e dalle necessità. Egli giunge così alle sue conclusioni più discusse: la subordinazione morale dell’individuo alla società attraverso la disciplina e l’educazione (concetti che contengono l’elaborazione successiva di socializzazione) e la società come oggetto e fonte della morale.
Egli svilupperà parte di questi concetti e soprattutto l’ambivalenza dei fatti morali nella sua ultima grande opera, “Le forme elementari della vita religiosa”, pubblicata nel 1912, dove analizza le religioni della popolazioni più antiche e il concetto di sacro come punto di contatto tra la vita religiosa e la vita morale.
La tesi centrale è che nelle società arcaiche le due vite coincidessero in quanto la coesione sociale fondata sulla condivisione di credenze comuni e su forti legami comunitari faceva sì che l’idea di società fosse trasfigurata nell’idea di dio. Con la crescente differenziazione sociale, nelle società moderne è inevitabile che la morale e la religione si allontanino, ma ciò non significa per Durkheim che la morale perde i suoi caratteri religiosi. Nelle società industriali, infatti, al centro della religiosità morale resta il vero oggetto, la società, con tutti i suoi simboli, quali inni, bandiere e stemmi. Il diffondersi dei vari nazionalismi dell’epoca non faceva che confermare il sociologo nelle sue idee.
Allo scoppio della prima guerra mondiale, Emile Durkheim riduce il suo impegno negli studi sociologici sia per il suo coinvolgimento nella propaganda bellica con la produzione di opuscoli e scritti, sia a causa di una salute sempre più cagionevole; il conflitto mondiale, inoltre porta un duro colpo al sociologo. Durante la ritirata dell’esercito francese in Serbia del 1914-15, il figlio André muore e per i mesi successivi Durkheim smette di lavorare. Alla fine del 1916 un colpo apoplettico lo costringe ad una lunge degenza e, infine, il 15 novembre del 1917 muore.
Tra i sociologi classici, Emile Durkheim è certamente stato l’autore che più di ogni altro ha influenzato gli sviluppi successivi della sociologia e delle scienze affini (si pensi solo allo strutturalismo di Levi-Strauss, le correnti americane del funzionalismo di Merton e del funzional-strutturalismo di Parsons e l’antropologia francese di Mauss).
I suoi principi metodologici sono stati alla base del nascere della ricerca quantitativa nelle scienze sociali e le sue conclusioni teoriche costituiscono ancora oggi oggetto di dibattito (si pensi ai lavori di Zygmunt Bauman) e questo, ancora più di ogni attestato, conferma la notevole portata del suo contributo. Ha dedicato i suoi studi al tentativo di costruire una scienza della società che, fondata su basi empiriche, potesse assurgere a pari dignità delle scienze naturali.
I temi principali, sui quali verte la sua opera, ruotano attorno e sono influenzati dalle profonde trasformazioni che la società e le scienze esperivano in quel periodo: la nascita dell’individualismo; la coesione sociale le conseguenze della transizione a sistemi sociali caratterizzati da una maggiore divisione del lavoro; l’autorità morale nelle relazioni tra gli individui; il ruolo della religione e dei riti collettivi all’interno della società; nonché la definizione di un metodo scientifico per lo studio sociologico che rappresenta uno dei dei maggiori lasciti dello studioso alla disciplina.
Emile Durkheim – OPERE
* La scienza positiva della morale in Germania (La science positive de la morale en Allemagne), 1887
* La divisione del lavoro sociale (De la division du travail social), 1893
* Le regole del metodo sociologico (Règles de la méthode sociologique), 1895
* Il suicidio. Studio di sociologia (Le Suicide, étude de sociologie), 1897
* Rappresentazioni individuali e rappresentazioni collettive (Représentations individuelles et représentations collectives), 1898
* L´educazione morale (L’éducation morale), 1903
* Le forme elementari della vita religiosa (Les formes élémentaires de la vie religieuse), 1912
* La sociologia e l’educazione (Education et Sociologie), 1922
* Sociologia e filosofia (Sociologie et Philosophie), 1925
* L’evoluzione pedagogica in Francia (L’évolution pédagogique en France), 1938
* La scienza sociale e l’azione (La Science sociale et l’Action), 1970
* Emile Durkheim – Henri Hubert – Marcel Mauss, Le origini dei poteri magici, 1991
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Emile Durkheim – Pensiero
Con Emile Durkheim la sociologia «sistematica» entra in crisi. La sociologia, secondo Durkheim, non è e non dev’essere una filosofia della storia la quale presuma di scoprire le leggi generali che guidano la marcia del «progresso» dell’intera umanità. Essa non è e non deve essere una metafisica che si reputa in grado di determinare la natura della società. La sociologia non è né psicologia né filosofia. Né, ancora, la sociologia può pretendere di atteggiarsi a scientia scientiarum. La sociologia, per Durkheim, è una scienza: una scienza autonoma e diversa dalle altre scienze. Ora, però, perché la sociologia possa qualificarsi come scienza autonoma, se ne debbono specificare sia l’«oggetto» sia le «regole del metodo». E questo è quanto fa Durkheim ne Le regole del metodo sociologico (1895). Innanzitutto, mentre Comte si era preoccupato di specificare le leggi della «fisica sociale» (leggi della «statica sociale»: quelle che determinano l’equilibrio sociale; leggi della «dinamica sociale»: quelle che ne determinano lo sviluppo necessario) e mentre Spencer pensa di avere individuato le leggi che determinano l’evoluzione delle forme sociali, Durkheim si impegna nella specificazione dell’oggetto tipico della sociologia, i fatti sociali.
I fatti sociali sono irriducibili alla vita biologica e, siccome non hanno l’individuo come substrato, hanno come base la società. Il fatto sociale, come tale, non si riduce al fatto psichico del singolo individuo, e ciò risulta evidente dalla «coercizione» che esso — il fatto sociale — esercita dall’esterno sull’individuo, sia attraverso sanzioni, sia attraverso la resistenza che esso oppone ai tentativi individuali di modificazione di una qualche istituzione o credenza o uso: Le nature individuali, non sono che la materia indeterminata che il fattore sociale determina e trasforma. Certi stati psichici, quali la religiosità, la gelosia sessuale, la pietà filiale, l’amore paterno, lungi dall’essere inclinazioni inerenti alla natura umana, derivano dall’organizzazione collettiva […]. Quasi tutto ciò che si trova nelle coscienze individuali viene dalla società.
Esistono, dunque, i «fatti sociali», oggetto specifico di ricerca di quella scienza autonoma che è la sociologia, la quale, peraltro, si potrà occupare di due grandi categorie di fatti: di quelli «normali» e di quelli «patologici». Leggiamo ancora ne Le regole del metodo sociologico: Noi chiamiamo normali i fatti che presentano le forme più generali e daremo agli altri il nome di morbosi o patologici. Naturalmente, «le forme più generali» si danno solo in relazione a una determinata società e in una specifica fase dello sviluppo di essa. Pertanto, un compito preliminare della sociologia è quello della classificazione dei tipi di società, e ciò si fa distinguendo le società in base al loro grado di complessità, dall’orda alle moderne complesse società. Esistono dunque i fatti sociali; e questi possono venir distinti, senza che li si valuti, in fatti normali e fatti patologici; e la sociologia è quella scienza che, considerando i fatti sociali «come delle cose», cerca «la causa determinante di un fatto sociale [.. .] fra i fatti sociali antecedenti e non tra i fatti della coscienza individuale».
Coniato come motto del proprio approccio il principio: “Studia i fatti sociali come cose!”, Durkheim presta attenzione allo studio rigoroso degli oggetti e di qualunque evento della società. Introdusse il termine “coscienza collettiva” per indicare l’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri di una data società. Emile Durkheim considera i valori e i costumi come un tessuto connettivo per la società. Determinante è a questo proposito il suo influsso nella ricerca della storia delle religioni: individuò infatti negli elementi del religioso l’espressione della volontà sociale, che si concretizza nel concetto di sacro (inteso come “separato” dalla realtà che gli si oppone, il profano).
Durkheim, a partire da questi presupposti, arriverà a definire la religione come “quel sistema di credenza e pratiche relative a cose sacre che uniscono in una comunità sociale coloro che vi aderiscono”. Secondo Durkheim tutte le rappresentazioni mentali collettive elaborate dall’uomo sul mondo (tempo, spazio, genere, numero, causa – “l’ossatura dell’intelligenza”) erano nel passato un prodotto del pensiero religioso, nel senso che le credenze religiose primitive racchiudevano le principali tra queste nozioni. L’uomo primitivo era dunque un animale sociale creatore di un pensiero religioso che racchiudeva in boccio tutte le forme culturali.
Per quanto riguarda gli studi sull’economia, egli analizza soprattutto la divisione del lavoro, ovvero il farsi strada di differenze sempre più complesse e influenti tra le varie posizioni occupazionali. Pian piano, il lavoro viene considerato da Emile Durkheim come il principale fondamento della coesione sociale, ancora prima della religione. Inoltre, con la divisione delle attività, gli individui diventano sempre più dipendenti gli uni dagli altri, perché ognuno ha bisogno di beni forniti da coloro che svolgono un lavoro diverso dal proprio. Secondo Durkheim, la divisione del lavoro prende gradualmente il posto della religione come principale fondamento della coesione sociale.
La divisione del lavoro in Durkheim
il primo lavoro importante tratta Della divisione del lavoro sociale (1893), dove si cerca di offrire una spiegazione della divisione del lavoro, vista come ripartizione di ruoli sociali, ma soprattutto si cerca di indagare sulla solidarietà sociale nella società moderna. Egli intende mostrare come a differenti livelli di sviluppo della divisione del lavoro corrispondano differenti tipi di solidarietà. A tal fine Durkheim distingue tra
1) una società semplice, basata sui vincoli della consanguineità; e
2) una società o tipo sociale secondario, tipicizzato dalla divisione e dalla specializzazione delle funzioni.
1. Nelle società semplici o primitive Durkheim vede un comune patrimonio di idee, di valutazioni, di esperienze che cementa i membri della comunità dando loro un sol cuore e una sola mente. In questo tipo di società si ha una solidarietà meccanica.
2. Questa solidarietà meccanica non è invece riscontrabile nella moderna società industriale, dove i soggetti si distinguono per professione, per ambiente familiare e sociale, per l’educazione ricevuta, in breve in base alla divisone del lavoro. E, secondo Durkheim, la divisione del lavoro avrebbe proprio la funzione di fornire un fattore coesivo in grado di unire, in una solidarietà organica, membri non più omogenei e con differenti interessi.
Durkheim approva il fenomeno della divisione organica del lavoro. Vi vede uno sviluppo normale e, in definitiva, felice, delle società umane. Giudica buona la differenziazione dei mestieri e degli individui, il ridursi dell’autorità della tradizione, il crescente dominio della ragione, lo sviluppo della parte lasciata all’iniziativa personale (Raymond Aron).
Durkheim riconosce alla divisione del lavoro soprattutto un carattere morale. Infatti
“in virtù di essa l’individuo ridiventa consapevole del suo stato di dipendenza nei confronti della società e del fatto che da questa provengono le forze che lo trattengono e lo frenano. In una parola, diventando la fonte eminente della solidarietà sociale, la divisione del lavoro diventa anche la base dell’ordine morale”. [1893, Émile Durkheim]
Ma quali sono le cause storiche ? Secondo Durkheim la divisione del lavoro si sviluppa regolarmente a misura della scomparsa della struttura segmentaria della società.
“La vita sociale, invece di concentrarsi in una molteplicità di piccoli focolari distinti e simili, si generalizza. I rapporti sociali – sarebbe meglio dire intra-sociali – diventano di conseguenza più numerosi, poiché da ogni lato si estendono al di là dei loro limiti primitivi. La divisione del lavoro progredisce quindi quanto più numerosi sono gli individui sufficientemente a contatto da poter agire e reagire gli uni sugli altri “. [1893, Émile Durkheim]
L’aumento dei contatti è legato soprattutto allo sviluppo delle vie e dei mezzi di comunicazione e alla nascita delle città. In definitiva si può dire che
“la divisione del lavoro varia in rapporto diretto al volume e alla densità e se progredisce in modo continuo nel corso dello sviluppo sociale ciò dipende dal fatto che le società diventano regolarmente più dense e generalmente più voluminose”. [1893, Émile Durkheim]
Accanto a ciò vi è il fatto che
“se il lavoro si divide sempre più a misura che le società diventano voluminose e più dense ciò non accade perché le circostanze siano più varie, bensì perché la lotta per la vita è più ardente”.
“La divisione del lavoro è quindi un risultato della lotta per la vita; ma è uno scioglimento mitigato di essa. Grazie ad essa, infatti, i rivali non sono obbligati ad eliminarsi a vicenda, ma possono coesistere fianco a fianco”. [1893, Émile Durkheim]
Per Durkheim l’ambiente sociale contribuisce in massima parte alla genesi delle attitudini.
“La varietà degli ambienti nei quali gli individui sono situati produce in essi attitudini differenti, che determinano le loro specializzazioni in sensi divergenti”. [1893, Émile Durkheim]
I caratteri ereditari hanno, riguardo a ciò, un influsso di gran lunga minore rispetto, ad esempio, all’educazione ricevuta in famiglia.
“Ciò non vuol dire che l’ereditarietà sia priva di influenza, ma soltanto che essa trasmette facoltà molto generali e non già attitudini particolari per questa o quella scienza. Ciò che il bambino riceve dai genitori è una certa capacità di esercitare l’attenzione, una certa dose di perseveranza, una sana facoltà di giudizio, dell’immaginazione e così via. Ma ognuna di tali facoltà può convenire a numerosissime specialità differenti ed assicurare loro il successo”. [1893, Émile Durkheim]
L’analisi di Durkheim si è fin qui concentrata sulla differenziazione delle funzioni quale base della, solidarietà e della cooperazione tra gli uomini. Esistono però delle forme anormali, che provocano antagonismo e non solidarietà, ed è nell’ambito di queste forme che si può inquadrare il discorso della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale.
a) La divisione anomica del lavoro
È quella divisione priva di regole precise tra le parti (“anomia”) e che dà origine a contrasti. Un esempio è “l’antagonismo del lavoro e del capitale” nell’ambito della grande industria. Questo antagonismo nasce soprattutto dal fatto che la divisione del lavoro quale esiste nella grande industria ha l’effetto
“di diminuire l’individuo riducendolo al ruolo di una macchina. Effettivamente, se egli non sa a che cosa tendono le operazioni che gli sono richieste, se non le collega a nessun fine, non può assolverle che per abitudine. Tutti i giorni egli ripete i medesimi movimenti con monotona regolarità, ma senza interessarsi ad essi e senza comprenderli”. [1893, Émile Durkheim]
Un rimedio a questo fatto non può essere trovato solo nel “dare ai lavoratori, in più delle loro conoscenze tecniche e specifiche, un’istruzione generale”. “È naturalmente bene che il lavoratore sia in grado di interessarsi alle cose dell’arte, della letteratura e così via: ma non per questo cessa di essere un male il fatto che tutto il giorno sia trattato come una macchina”. [1893, Émile Durkheim]
Infatti, e qui Durkheim mette indirettamente in luce le potenzialità emancipatrici connesse all’appropriazione di una cultura generale,
“se si prende l’abitudine dei vasti orizzonti, delle visioni d’insieme, delle belle generalità, non ci si lascia più confinare senza impazienza negli stretti limiti di un compito specifico. Un rimedio di questo genere renderebbe quindi la specializzazione inoffensiva, soltanto rendendola intollerabile e, di conseguenza, più o meno impossibile”. [1893, Émile Durkheim]
La soluzione risiede soltanto, per Durkheim, nel non stravolgimento delle caratteristiche della divisione del lavoro. Infatti, essa stessa
“suppone che il lavoratore, lungi dal restare chino sul suo compito, non perda di vista i suoi collaboratori, agisca su di essi e riceva la loro azione. Egli non è quindi una macchina che ripete movimenti dei quali non scorge la direzione ma sa che essi tendono da qualche parte verso un fine che comprende più o meno distintamente”. [1893, Émile Durkheim]
b) La divisione coercitiva del lavoro
Un altro tipo patologico di divisione del lavoro si ha quando
“la distribuzione delle funzioni sociali … non corrisponde più alla distribuzione dei talenti naturali”. “Quando i plebei si misero a disputare ai patrizi l’onore delle funzioni religiose e amministrative, non lo fecero soltanto per imitarli, ma anche perché erano diventati più intelligenti, più ricchi, più numerosi, e perché i loro gusti e le loro ambizioni si erano modificati in conformità”. [1893, Emile Durkheim]
Posta una uguale base di partenza,
“la sola, causa che determina allora la maniera in cui il lavoro si divide è la diversità delle capacità. La distribuzione avviene quindi per forza nel senso delle attitudini, poiché non c’è ragione che la si faccia altrimenti”. [1893, Emile Durkheim]
Se così non avviene, si ha una divisione coercitiva del lavoro, in cui il rapporto tra talenti e ruolo lavorativo non è omogeneo e genera antagonismo. Ma se abbiamo, con Emile Durkheim, posto come assunto la presenza in tutti di capacità generali, le attitudini particolari risultano essere soprattutto un portato della struttura sociale nelle varie articolazioni in cui è presente l’individuo.
Divisione del lavoro e società. Emile Durkheim insiste sulla necessità che la divisione del lavoro assolva la sua funzione principale che è quella di sviluppare la solidarietà sociale. A questo scopo sottolinea che
“la divisione del lavoro non produce la solidarietà a meno che essa non sia spontanea, e nella misura in cui lo è. Ma, per spontaneità bisogna intendere l’assenza non soltanto di ogni violenza esplicita e formale, ma anche di tutto ciò che può avversare – anche indirettamente – il libero spiegamento della forza sociale che ognuno reca in sé. Essa presuppone non soltanto che gli individui non siano relegati dalla forza in funzioni determinate, ma anche nessun ostacolo, di qualsiasi natura, impedisca loro di occupare nei quadri sociali il posto rispondente alle loro facoltà. In breve, il lavoro si divide spontaneamente soltanto se la società è costituita in modo da permettere alle ineguaglianze sociali di esprimere esattamente le ineguaglianze naturali “. [1893, Émile Durkheim]
Infine, Durkheim rileva un aspetto importante dell’odierna società industriale: la necessità, per un sistema sociale con funzioni così compenetrate come l’attuale, di una interazione il meno antagonistica possibile. Per cui diventa assolutamente indispensabile l’abolizione delle forme anomiche e coercitive della divisione del lavoro, e ciò è possibile, per Durkheim, solo attraverso una crescente uguaglianza e una divisione del lavoro totalmente “spontanea”.
“Ecco perché nelle società organizzate è indispensabile che la divisione del lavoro si avvicini sempre più all’ideale di spontaneità che abbiamo definito. Se esse si sforzano – e debbono sforzarsi – di annullare quanto più possibile le diseguaglianze esteriori, ciò avviene non soltanto perché è una lodevole impresa, ma perché la loro stessa esistenza è impegnata nel problema. Infatti possono persistere soltanto se tutte le parti che le formano sono solidali, e la solidarietà non è possibile che a questa condizione”. [1893, Émile Durkheim]
Lo studio del suicidio
Durkheim rileva, nella società che va verso la divisione organica del lavoro, dove domina la razionalità, anche elementi di insoddisfazione e accennando in “Della divisione del lavoro sociale”, di sfuggita, all’aumento del numero dei suicidi, tema quest’ultimo sul quale Durkheim nel 1897 pubblica “Il suicidio”. Pur sembrando in apparenza un atto soggettivo, imputabile a incurabile infelicità personale, Durkheim mostra come ci possano essere dei fattori sociali che esercitano un’influenza determinante al riguardo, soprattutto ciò che egli chiama anomia, rottura degli equilibri della società e sconvolgimento dei suoi valori.
Durkheim scarta le spiegazioni del suicidio di tipo psicologico; ammette che vi possa essere una predisposizione psicologica di certi individui al suicidio, ma la forza che determina il suicidio non è psicologica, bensì sociale. Elenca i modi di suicidio in quattro tipi:
* il suicidio egoistico si ha quando le persone pensano solo a se stesse, e non sono in grado di raggiungere gli obiettivi che si pongono in continuazione.
* il suicidio altruistico si ha quando la persona è troppo inserita nel tessuto sociale, al punto da suicidarsi per soddisfare l’imperativo sociale (ricordiamoci che per Durkheim è la società che crea gli individui, e non viceversa) come esempio c’è la vedova indiana che accetta di esser posta sul rogo che brucerà il corpo del defunto marito, o il comandante di una nave che sta per affondare, il quale decide di non salvarsi e di morire affogando insieme alla nave.
* il suicidio anomico, tipico delle società moderne, sembra collegare il tasso dei suicidi con il ciclo economico: il numero dei suicidi aumenta nei periodi di sovrabbondanza come in quelli di depressione economica.
Anomia (a-nomos = privo di leggi) è una situazione sociale in cui non esistono più leggi e regole, o, se esistono, sono confuse, contraddittorie oppure inefficaci. In una situazione siffatta, anche se il gruppo resta, non c’è solidarietà alcuna e l’individuo non ha più né sistemi di appoggio né punti di riferimento. In sostanza l’anomia è uno stato di disordine e Durkheim si è reso conto che la percentuale dei suicidi aumenta nelle epoche di forte depressione economica e di dissesto sociale, ma ha anche visto che tale percentuale cresce pure nei periodi di prosperità inattesa e improvvisa: la depressione e la prosperità porterebbero, secondo Emile Durkheim, al crollo delle aspettative e con ciò all’aumento dei suicidi.
* il suicidio fatalista, è tipico di un eccesso di regolamentazione, di una sorta di dispotismo morale esercitato dalle regole sociali, di un eccesso di disciplina che chiude gli spazi del desiderio, come può essere nel caso di ragazzi che si sposano troppo giovani.
La corrente suicidogena come Emile Durkheim l’ha chiamata, presuppone anche un coefficiente di preservazione, cioè delle condizioni soggettive che diminuiscono o aumentano la probabilità del suicidio. Per esempio, Durkheim ha notato che i cattolici hanno un coefficiente di preservazione maggiore rispetto ai protestanti (in pratica si suicidano di meno) e che le donne sposate hanno un coefficiente di preservazione più alto rispetto alle nubili; tuttavia, in questo caso, superata una certa età, il coefficiente di preservazione si tramuta nell’opposto, divenendo così coefficiente di aggravamento, in quanto le donne di età avanzata non sono più soddisfatte dall’avere un marito, quanto dall’avere dei figli.
D’altro canto, per tutti i tipi di suicidio Durkheim adduce molte esemplificazioni a conferma delle sue idee. Così, per esempio, veniamo a sapere che il numero di suicidi è molto alto tra i liberi pensatori, come anche tra i protestanti, mentre tra i cattolici la percentuale è bassa, e ancor più bassa tra gli ebrei, a motivo della integrazione sociale prodotta dalle loro rispettive fedi. Durkheim ci dice anche che si registrano più suicidi tra gli scapoli, i divorziati e i vedovi che tra gli sposati; tra le persone sposate senza figli che tra quelle sposate con figli.
Pur se oggetto di varie confutazioni, anche da parte dei suoi continuatori come il nipote Marcel Mauss e Claude Lévi-Strauss, Durkheim ha segnato una tappa fondamentale all’interno del panorama della sociologia contemporanea.
Le teorie di Durkheim fanno parte delle teorie olistiche, che considerano la società come un organismo indipendentemente dai singoli elementi che la compongono. Per questo non considera affatto la situazione psicologica degli attori sociali considerandoli come elementi funzionali al mantenimento del sistema stesso. Il sistema deve preservarsi sia dai mutamenti interni, dovuti alle forze centrifughe che portano ad uno spostamento degli elementi verso l’esterno, e dai mutamenti esterni dovuti alle forze perturbatrici che minano l’ordine del sistema. Durkheim attribuisce un valore assoluto alle strutture cristallizzate e cristallizzanti dell’organismo sociale considerando tutto il resto funzionale al mantenimento dell’equilibrio di tale organismo. A tal proposito non attribuisce la responsabilità delle correnti suicidogene alle strutture sociali che non si presentano in grado di svilupparsi parallelamente all’emergere dei bisogni degli individui, ma attribuisce la responsabilità del suicidio ad una scarsa integrazione dei singoli attori all’ordine del sistema, senza pertanto analizzarlo come un problema derivante da uno stato psicologico, bensi’ da una scarsa capacità di porsi in linea con le dinamiche del sistema.
Le regole del metodo sociologico secondo Durkheim
Le regole del metodo sociologico costituiscono una chiara e rigorosa formulazione dei presupposti e dei procedimenti della ricerca sociologica. I diversi capitoli dell’opera sono dedicati alla determinazione del concetto di «fatto sociale», alle condizioni dell’osservazione dei fatti sociali, al problema della spiegazione sociologica e a quello della verificazione in sociologia. Attraverso quest’analisi Durkheim formula i principî di una sociologia concepita come scienza oggettiva, che trae le condizioni della propria validità dalla capacità di determinare un campo autonomo di ricerca e di procedere alla spiegazione dei fatti sociali sulla base dei riferimenti ad altri fatti anch’essi di natura sociale, e non già a fenomeni di altra natura.
La stesura dello scritto Della divisione del lavoro sociale del 1893 indusse Emile Durkheim a misurarsi con le categorie da lui impiegate in quello scritto: in particolare, a domandarsi quali fossero e come funzionassero, in concreto, le regole del metodo sociologico. Non tutto è sociale in una società: e il fatto sociale ossia l’integrazione degli individui in una comunità morale di significazione – è poi irriducibile ai fatti psicologici e biologici. Si tratta di un fatto collettivo, obiettivo, non soggettivo né mentale, e rispondente a leggi sociali autonome dalla psicologia e dalla biologia.
” Quando adempio ai miei compiti di fratello, di coniuge o di cittadino quando onoro gli impegni che ho contratto, io eseguo dei doveri che sono definiti fuori di me e dei miei atti, nel diritto e nei costumi. Proprio quando sono d’accordo con i miei sentimenti più profondi e ne sento interiormente la realtà, questa non cessa di essere oggettiva; poiché i miei doveri non sono io ad averli fatti, ma li ho ricevuti con l’istruzione. La caratteristica essenziale dei fatti sociali consiste nel potere che essi hanno di esercitate dall’esterno una pressione sulle coscienze degli individui. Un fatto sociale si riconosce dal potere di coercizione esterno che esso esercita o è suscettibile di esercitare sull’individuo. “
E’ dunque la coercizione o sanzione (contrainte) ai voleri dell’individuo che istituisce il fatto sociale. Posso decidere di portare le scarpe appese al collo, ma la riprovazione collettiva, non il fatto in sé, mi scoraggerà dal farlo. D’altra parte, una società si manifesta come un tutto: in ciò riposa l’olismo durkheimiano. Non è il risultato della somma di individui o di gruppi: è un luogo in cui le orme sono funzione dell’interdipendenza delle sue componenti (olismo).
È vero che la società è composta da individui: ma è anche vero che essa è qualcosa di più che la semplice somma di individui, alla luce del fatto che aggregandosi, penetrandosi, fondendosi, le anime individuali danno vita ad un essere (psichico, se vogliamo) che però costituisce un’individualità psichica di nuovo genere. Detto altrimenti, nel caso della società, è la forma del tutto che determina quella delle parti (in opposizione a Durkheim, Max Weber muoverà dai singoli individui per spiegare la società). Per questo motivo, bisogna guardarsi dallo spiegare i fatti sociali come frutto dei fatti psichici degli individui: piuttosto, nella maggior parte dei casi, i fatti psichici sono il prolungamento (così dice Durkheim) di fatti sociali all’interno della coscienza.
Ciò appare evidente se, come suggerisce Durkheim, prestiamo attenzione al caso del matrimonio: è l’organizzazione sociale del matrimonio che fa nascere i sentimenti parentali, e non viceversa. Si può così valutare la normalità o il carattere patologico di un fatto sociale soltanto riportandolo al proprio contesto, alla tipicità esibita dalla società osservata in un periodo dato della propria evoluzione strutturale. Di più: ogni società è un insieme di fatti morali, una combinazione sui generis di istituzioni. Con istituzione, Durkheim designa ogni forma organizzata – famiglia, istruzione, giustizia – tesa ad un fine sociale, una funzione, che il criterio d’utilità non definisce né spiega: in effetti, l’organo è indipendente dalla funzione, poiché le cause che lo hanno posto in essere sono indipendenti dal fine a cui tende. L’analisi di Durkheim implica che se l’intersezione dei gruppi, l’interdipendenza costante delle istituzioni determinano il sociale, tutto, in una società, non dipende dalla funzione. Così si trova in anticipo negato ogni valore esplicativo alle teorie funzionaliste del sociale nelle quali ogni item – idea, abitudine, oggetto, ecc. – è ritenuto, in quanto esistente, atto ad adempiere un fine necessario che si raggiungerebbe in un’unità fuori dalla storia: la soddisfazione di bisogni psicobiologici fondamentali. Al contrario, per Emile Durkheim, se l’essere umano ha una capacità indefinita di desiderio, ed è ciò che segnalano i periodi d’anomia, l’espressione dei bisogni è sempre socialmente condizionata. Essi insomma non esistono fuori dalla società e solo in essa si soddisfano. Durkheim farà delle istituzioni il suo oggetto primario di studio perché sono particolarmente obiettivabili, distinguono le società umane delle società animali e attestano l’unità del tipo umano. La sociologia comprenderà la morfologia sociale, che studia il substrato della vita collettiva (forma e ripartizione del gruppo sul territorio, dell’ habitat, delle comunicazioni), e la fisiologia sociale, che studia la genesi ed il funzionamento delle istituzioni, le correnti sociali libere, fonti delle trasformazioni o della creazione delle istituzioni.
Altra pagina su Emile Durkheim
TESTI SU EMILE DURKHEIM REDATTI E RIVISTI DA:
– http://www.parodos.it
– Manuel Antonini – Sociologia.tesionline.it
– http://www.problemistics.org
– http://biografieonline.it
– http://it.wikipedia.org
– http://www.filosofico.net
– http://www.riflessioni.it
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