Come R-esistere al degrado ?

come resistere al degrado

Condividi:

Comunicazione, spazi e simboli di Resilienza Urbana

Introduzione

“È importante sapere che le parole non muovono le montagne. Il lavoro, l’impegnativo lavoro muove le montagne”, così scriveva il grande sociologo e poeta Danilo Dolci. Proprio da questa celebre frase, vorrei porre grande attenzione ad uno dei processi che, secondo me, è uno strumento adatto per l’affronto, l’analisi e resistenza al degrado urbano, che oggi come non mai, impregna le nostre città, i nostri quartieri, ovvero: il lavoro socio-culturale delle associazioni. Un degrado che racchiude diverse dimensioni tra cui quello linguistico, sociale, economico e culturale. Lo strumento socio-culturale preso in esame, si converte in un vero e proprio mezzo di trasmissione, condivisione, partecipazione e comunicazione che si relaziona all’indifferenza, al degrado e alla violenza che rende intrappolati chi abita in determinati quartieri e vive “nelle” e “delle” sue tradizioni, seppur illecite e fatiscenti.

Ho deciso di prendere in esame due casi d’indagine, attenzionando due quartieri di Catania con loro rispettive associazioni, che oggi sono dei punti di riferimento sociale che fungono da pratica e strumento socio-relazionale in direzione di una consistente ed efficiente prospettiva di resilienza urbana. I due cases study sono i quartieri di: San Cristoforo, con l’associazione “Midulla” e San Berillo Vecchio, con “Trame di quartiere – rigenerazione urbana”.

Queste due sfere socio-culturali, con le loro rispettive caratteristiche, linguaggi, forme di comunicazione, partecipazione, condivisione e simboli, ricostruiscono quel puzzle urbano resiliente in quartieri “non resilienti”, non dimenticando che anch’esse, nel loro passato, hanno subìto atti di violenza che ne hanno causato altro degrado, ma che con tanta determinazione, hanno saputo reagire rialzandosi e mettendosi in gioco, riaffermandosi come punti di azione e sostegno per gli abitanti dei rispettivi quartieri, e non solo, donando quelle forme di integrazione ed inclusione sociale, che possono essere dei punti di snodo per generare un’adeguata convivenza e condivisione tra chi vive il quartiere quotidianamente e vederne, magari, quegli spazi di luce che, spesso, vengono oscurati dal degrado, poiché – sentendomi onorata di “ri-evocarlo” – lo stesso Danilo Dolci, in una delle sue celebri frasi, disse che: “la creatività non si trasmette. Ma ognuno incontrando l’occasione di poterla sperimentare, può accendersene”.




“… nei rifiuti del mondo, nasce un nuovo mondo:

nascono leggi nuove dove non c’è più legge;

nasce un nuovo onore dove onore è il disonore.

Nascono potenze e nobiltà, feroci,

nei mucchi di tuguri,

nei luoghi sconfinati dove credi che

la città finisca, e dove invece

ricomincia, nemica, per migliaia di volte,

con ponti e labirinti, cantieri e sterri,

dietro mareggiate di grattacieli,

che coprono interi orizzonti.”

Pier Paolo Pasolini

R-esistenza

La bellezza della lingua italiana sta nel rappresentare le varie sfaccettature e significati di una singola parola, quindi mi è doveroso appurare, prima di parlare di resilienza urbana, il significa etimologico delle parole “resilienza” ed “esistenza”.

Resilienza deriva dal latino resiliens, “resilire”, ovvero “saltare indietro, rimbalzare”. È un termine usato in varie discipline come l’informatica, ingegneria, religione, ecologia, biologia e psicologia. In fisica, la resilienza si associa al pendolo di Charpy, utilizzato per misurare la capacità di un materiale di resistere a forze dinamiche applicate, o meglio, la capacità di assorbire energie mentre tale materiale viene deformato elasticamente. Nel sistema sociale è la capacità di affrontare il cambiamento senza perdere la propria identità, la capacità che le comunità hanno di affrontare le proprie difficoltà, senza chiudersi alle trasformazioni ma mantenendo le proprie radici, la propria storia, ciò che sostiene la vita quotidiana, gli scambi sociali, il sistema simbolico e comunicativo che racchiude la collettività. Parlare di un luogo resiliente significa parlare di un sistema urbano che affronta e si adegua ai cambiamenti climatici ma anche a quelli culturali, economici, strutturali e, come ne analizzerò, ai fattori sociali. Gli spazi pubblici sono un rilevante punto di riferimento ed evoluzione in cui è possibile agire per far diventare resilienti determinati luoghi sottoposti al degrado (Capra 1982, p. 23; Mezzi, Pelizzaro 2016, pp. 6-7).

Il termine esistenza, invece, deriva dal latino ex-istentia che significa “avere l’essere da”. Aristotele concepì l’esistenza come unione di materia e forma, o lo stato di una determinata realtà costituente l’oggetto di un’esperienza “sensibile”. Il filosofo francese Jean-Paul Sartre, invece, sosteneva che “l’uomo esiste prima di essere e che, in seguito a ciò, mentre può essere ciò che vuole non può decidere di non esistere” (Capra 1982, p. 23).

Le associazioni di cui tratterò rappresentano questi due processi: Resistenza ed Esistenza.

A mio parere, un luogo è reso resiliente, quindi capace di reagire agli urti sociali che ne hanno causato problematiche di varia natura, quando i soggetti che ne entrano in interazione definiscono un senso di appartenenza e reazione verso quei fenomeni di decadenza urbana, sociale e culturale, come le stesse associazioni di cui tratterò operano nei loro rispettivi quartieri, come punto di appiglio per nuove forme di comunicazione, partecipazione, integrazione e condivisione, per favorire un più adeguato ed efficiente processo di inclusione sociale, poiché, la mia “lente sociologica” mi porta a vedere le associazioni come strumento di potenza ed efficienza di resilienza urbana.

Sotto lo sguardo della lente sociologica

Lo studio della città è sempre stato un oggetto privilegiato nello studio sociologico, creatore di definizioni e criteri di analisi incrementati nel tempo, analizzata come realtà a se stante e come luogo in cui gli individui interagiscono e si caratterizzano attraverso le proprie molteplici appartenenze sociali, connettendosi a relazioni presenti al suo interno. Un quartiere è una sezione specifica della città, territoriale e sociale, in cui agiscono attori, situazioni, risorse e criticità, come un campo d’azione centrale, in cui si possono attivare sinergie sociali, economiche, ambientali, strategie di marketing urbano che esaltano caratteristiche qualitative ed infrastrutturali, ma anche ne conferiscono identità e visibilità. In un quartiere vengono poste non solo le dinamiche inclusive ma anche quelle esclusive e discriminanti, che trova fonte energetica nell’ interazione tra i suoi abitanti, la condivisione degli spazi, l’ uso e la gestione di spazi pubblici e riconoscimento di interessi comuni. Le associazioni che analizzerò (il Midulla e Trame di Quartiere), non sono per il quartiere solo un momento di conoscenza di un tipo di realtà, ma sono un modo di immaginare un’altra realtà, quella generata dalla gente che vi abita, dalle loro convinzioni, ideologie e valori.

Quando cammino nei quartieri, mi sento di vestire i panni della figura del flâneur, camminando, senza fretta, nei vari agglomerati urbani, ponendo una sguardo di lettura della città, esplorandola, camminando senza metà e ponendomi come osservatrice acuta della vita urbana portandomi a conoscenza dei luoghi in cui si esprime la mescolanza dei caratteri della città, dei suoi quartieri, “la sua porosità, che le permette di assorbire e metabolizzare le più diverse influenze, la sua capacità di far coesistere stili e comportamenti opposti e di risolvere i problemi con l’improvvisazione” (Ciaffi e Mela 2011, pp. 65-67). In entrambi i quartieri, si crede di trovare solo degrado, invece la realtà richiama tratti inediti, in cui chi ve ne pone ricerca, si rende protagonista di una grande capacità di osservazione che consente di dedurre particolari apparentemente insignificanti, ma che raffigurano complessi stati della realtà, la scoperta, la sagacia, di risultati ai quali non si era mai pensato di tener conto ma che ne rimanda una realtà diversa da quello, che in primo approccio, ci si aspetta. Tale processo viene chiamato Serendipity, un neologismo coniato dallo scrittore inglese Horace Walpole che descrive il nesso casuale di una scoperta inattesa, non programmata, poiché ne era in cerca di un’altra. Il suo termine d’origine deriva da Serendip, l’antico nome persiano dello Sri Lanka. Walpole usò per la prima volta questo termine in una lettera indirizzata all’ educatore statunitense, Horace Mann, nel 1754, ispirandosi alla fiaba persiana “I principi di Serendippo”, in cui i tre protagonisti trovarono per fortuna, casualmente o per capacità di osservazione, cosa di cui erano conosciuti e dotati per natura, tutto ciò che nella loro missione principale non stavano cercando e non avevano programmato. Per descrivere il processo di serendipità, con tono ironico, il ricercatore biomedico americano Julius H. Comroe, disse che: “la serendipità è cercare un ago in un pagliaio e trovarci la figlia del contadino” (Bagnasco, Bargagli e Cavalli 2012, p. 32; Merton e Barber 2002, pp. 29-30, 186, 344).

Non avevo programmato di fare un giro nel quartiere, ma solo di vedere il Midulla, invece, camminando per le strade di San Cristoforo, notai tutte queste case così strette e legate tra loro, le finestre aperte con queste signore tutte in pigiama, arredamenti arrebescati d’oro. Camminando tra le strade di San Berillo Vecchio, invece, a livello architettonico si vede Piazza Stesicoro, con questi palazzoni che ne tagliano la meravigliosa prospettiva, ispirate al modello di intervento haussamaniano, che a Parigi aveva fatto delle strade ad incrocio. San Berillo e San Cristoforo, sono strutture organiche, poiché le case per come sono composte facilitano l’integrazione, anche involontaria, delle famiglie. Nel San Cristoforo, ad esempio, sono tutte case “a corte”, in cui c’è un ingresso che si apre su una corte interna e le case si affacciano tutte a questi cortili. Intervistando Amelia, un membro del Midulla, mi colpisce una frase che non solo raffigura l’anima del quartiere, ma anche la dimensione socio-culturale tradizionalista: “Quando cammino all’interno del quartiere vedo tutte queste finestre con ste signore che comunicano tra un balcone e l’altro e penso: “qui in quartiere ci sono più macchine da cucire rispetto a quanto ne possa trovare in tutta Catania!!”.

Il quartiere come spazio chiave della quotidianità urbana che contribuisce alla creazione dell’identità di residenti, protagonista delle trasformazioni e cambiamenti della città. Spazi mixofobici, come ne osservava il sociologo Zigmunt Bauman, come via di fuga dalla necessità di guardarsi profondamente l’uno dentro l’altro, nella continua lotta in difesa del bene individuale e della proprietà privata, e spazi mixofiliaci, impregnati dal piacere della conoscenza di nuove situazioni, novità nel modo di vivere e di agire, incrementando in tal modo, spazi di condivisione pubblica e sociale, come vedremo in entrambe le associazioni. (Borlini e Memo 2008, pp. 7-24, 27-61, 86-88; Bauman 2005, p. 33).

La città vista come un territorio sconosciuto da esplorare attentamente, come una grande casa in cui i quartieri sono le sue finestre; essa come laboratorio socio-antropologico, di idee, atteggiamenti organizzati e interessi che affonda le sue radici nelle abitudini e nei costumi dei suoi abitanti, evolvendosi insieme alla società, cambiando i propri spazi e le sue caratteristiche. La città, non solo come luogo di fusione ma anche di riconoscibilità di culture diverse richiamando ed trattenendo patrimoni di conoscenze e costumi differenti, ha il ruolo di spiegare ed analizzare alcune trasformazioni culturali che non arriviamo o non possiamo afferrare, comprendere e controllare. Il legame tra quadro spaziale e pratica sociale è alla base della tipologia storica per differenziare le diverse forme di collettività territoriale, tra cui il quartiere, organizzato attorno ad una sottocultura e rappresentando una frattura significativa nella lesione sociale, potendo giungere a una certa istituzionalizzazione nell’ autonomia locale. Per Lefebvre la città rispecchia ideologie, religioni, poteri ma anche la stratificazione economica della società, l’esistenza di bisogni sociali che hanno un fondamento antropologico, come la sicurezza, certezza, divertimento, incontro, scambio, comunicazione, e bisogni specifici di attività creative, ludiche e immaginazione. Il diritto alla città può essere formulato come diritto alla vita urbana, trasformata, rinnovata e ripopolata, Il diritto che ognuno ha di non essere escluso, emarginato; una città che deve rappresentare qualcos’altro, che deve rispondere alla centralità sociale, attivandone il diritto alla partecipazione in cui i cittadini dovrebbero svolgere un ruolo centrale in tutte le decisioni che contribuiscono alla produzione dello spazio, in cui i cittadini si rendono attivamente partecipi ai processi produttivi socio-spaziali che interessano la loro città, il loro quartiere. Lo spazio possiede una propria dialettica, è un prodotto materiale nelle relazioni sociali ma anche una manifestazione di tali relazioni. La produzione dello spazio urbano riguarda processi che trascendono la pianificazione dello spazio fisico urbano e si estendono alla produzione e alla riproduzione di tutti gli aspetti della vita urbana (Lefebvre 1970, p. 33-34; Nuvolati 2011, p. 158; Della Pergola 1994, pp. 3-32; Castells 1974, pp. 134-135).

Max Weber analizzò la città come la realtà in cui convivono gruppi e tensioni diverse, capaci però di una risoluzione in positivo della conflittualità che li attraversa, e proprio l’analisi di Weber mi fa pensare, contrariamente, alla conformazione delle strade di San Cristoforo e San Berillo Vecchio: “Si può tentare di definire una città in modo diverso. […] Da punto di vista sociologico essa designa una borgata, cioè un insediamento in case strettamente confinanti che costituiscono un insediamento compatto e così ampio che vi manca quella specifica e personale conoscenza reciproca degli abitanti tra loro, che è specifica del gruppo di vicinato […]” (Weber 2006, p. 3-5).

Grazie al lavoro delle associazioni, adeguate sono le parole della sociologa Jane Jacobs in cui ciò che caratterizza i quartieri è “un meraviglioso ordine che può mantenere sicure le strade e al tempo stesso rendere libera la città. È un ordine complesso, fatto di movimento e di mutamento, che è vita ma non arte”. E ancora, “Il quartiere – e, meglio ancora, il maggior numero possibile delle singole zone che lo compongono – deve servire a più funzioni primarie, possibilmente a più di due. Queste funzioni debbono assicurare la presenza di persone che popolino le strade a ore diverse e che, pur frequentando la zona per motivi differenti, abbiano modo di utilizzare in comune molte delle sue attrezzature” (Jacobs 1969, pp. 140-142).

Un luogo desiderato riflette e dà luce alla vita che vogliamo, che aspettiamo, ciò che offre e consente, ciò che è indispensabile, utile e desiderabile. Un luogo in cui l’osservatore ne entra mentalmente dentro e ne riconosce le caratteristiche individuali. Proprio così, la vita urbana si crea quando le persone combinano più ruoli e, in una certa misura, li adattano l’un l’altro. Ma il ruolo centrale è affidato alla gente che deve operare e definire la città concreta che intende costruire, poiché ognuno ha un’immagine di città unica, individuale, nel suo senso sociale, nella sua storia, nel suo nome e nelle persone che strutturano in questo modo la città, con divergenze individuali in cui, percorsi o quartieri, rappresentino gli elementi dominanti. Questo dipende dagli individui ma anche dalla città considerata (Amendola 2010, p. 13; Hannerz 1992, pp. 411-414; Lynch 2006, pp. 65-66, 82).

Scarica l’articolo completo in PDF

Claudia Coco
Latest posts by Claudia Coco (see all)
Condividi:

Written by 

Claudia Coco è attualmente sociologa e collaboratrice ENASC (Ente Nazionale di Assistenza Sociale ai Cittadini), ANPIM (Associazione Nazione delle Piccole e Medie Imprese) e UNSIC (Unione Nazionale Sindacale Imprenditori e Coltivatori) presso la 5° Circoscrizione di Catania. Laureata in sociologia presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali di Catania con tesi in Sociologia Urbana “Pratiche e approcci del vivere la città. Azioni, spazi e differenze “nei” quartieri di San Berillo”. Si occupa attualmente di studi socio-antropologici presso i quartieri di San Berillo in Catania. Per informazioni e contatti: clacoco28 [chiocciola] gmail punto com