Il carattere esistenziale delle norme

Il carattere esistenziale delle norme

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Il termine ontologia deriva dal greco òntos (essere) e lògos (discorso), ovvero “discorso sull’essere”, branca della filosofia che cerca di spiegare l’essere.

Ma esiste realmente una norma?
Le proposizioni normative non coincidono esplicitamente con le norme, poiché esse rappresentano un enunciato, ovvero una frase di senso compiuto che ha una struttura ben precisa di predicazione: soggetto + predicato. Se dicessi “Luca!!”, enuncerei una frase, ma non una proposizione. Nella frase “Luca mangia la pasta perché ha fame”, ci sono due proposizioni: “Luca mangia la pasta” e “perché ha fame”. Per dire, in modo razionale, che una norma esiste e che una proposizione normativa sia vera o falsa (ad esempio: “Luca deve mangiare”, è vera o falsa?) bisogna considerare diversi fatti che ci consentono di dare una diversa forma logica alle norme esistenti, poiché esse dipendono dal tipo differente di norme. Per la maggior parte delle norme, questi fatti sono contingenti, o meglio empirici, esistenti nella realtà, visibili, percepibili concretamente, e non qualcosa di astratto (se in una società ci sono dei costumi, delle tradizioni, per esempio “i musulmani posso sposarsi con tante donne”, è un fatto contingente, concreto).

Le regole del gioco degli scacchi, ad esempio, sono regole contingenti. È necessario che esso abbia delle regole a cui dobbiamo sottostare, poiché se giocassimo a scacchi secondo le “nostre” regole, in realtà, non staremmo giocando a scacchi. Per dire che sia necessaria o meno l’esistenza di una norma, quindi, bisogna interrogarsi sul problema ontologico. Si può pensare che le norme morali, cioè che riguardano la sfera dell’etica, interrogandosi su come bisogna comportarsi da un punto di vista morale, abbiano un’esistenza necessaria. Interrogarsi sul fatto che sia necessaria o no l’esistenza di tali leggi è complicato, perché anche il concetto stesso di “esistenza necessaria” è difficile da espletare, poiché ognuno può interpretarlo in modo diverso in base alle varie filosofie. Alcuni studiosi affermarono che la legge morale è necessaria quando è teonoma, ovvero dettata dalle ‘leggi’ di Dio. “Secondo i cristiani bisogna santificare le feste”, questa è una legge morale perché ‘Dio dice questo’ ed è giusto comportarsi come di norma, sentendo la necessità di “sentirsi delle brave persone”. Altri studiosi, invece, pensarono che le norme morali fossero necessarie quando le sue leggi erano governate dalla Natura (“per sopravvivere bisogna procurarsi il cibo”), proveniente quindi dai diversi bisogni naturali. Le norme morali naturali sono empiriche, quelle teonome no poiché si tratta di qualcosa che si sente di dover fare per raggiungere un benessere interiore. Ma nonostante ciò è difficile stabilire se esse siano davvero necessarie, quindi il problema dell’esistenza delle norme, lo si affronta esplicitando le prescrizioni, che sono un tipo di norme.

Cosa è necessario per dire che esiste una prescrizione?
Le prescrizioni sono ordini, permessi e proibizioni. Un ordine, in cui si vuole che un’agente svolga qualcosa (“Luca passami quel libro!!”); un permesso, in cui s’intende potere nel senso di essere consentito (“Luca posso prendere quel libro?”); una proibizione, in cui vi è assenza di permesso (“Luca non puoi prendere quel libro!”). Queste tre dimensioni possono essere condizionate dal modo in cui vengono espresse, dal tono di voce.




La scienza che si occupa del linguaggio umano è la linguistica, distinguendo due diverse scuole di pensiero: in quella tradizionale si parla di semantica che si occupa dello studio del significato delle frasi in base al loro contenuto lessicale, a ciò che viene detto. Ad esempio, nella frase “nel frigo c’è del latte”, la semantica interpreta in base al significato della parola, della frase, non tenendo conto del contesto. Invece, nella scuola pragmatica si tiene conto del contesto in cui l’enunciato viene pronunciato, per esempio la frase “nel frigo c’è del latte”, in base al contesto in cui si dice “voglio del latte”, se si apre il frigo ma vi si trova una crosta di latte all’interno del frigo, si pensa che è stata detta una menzogna, perché in base al contesto ci si aspetta che si proponga del ‘vero latte’, ma in realtà anche se c’è la crosta, l’enunciato sarebbe vero in un altro contesto perché realmente c’è del latte. Quindi è rilevante tener conto del contesto per stabilire se quello che diciamo sia realmente vero o falso. Senza tener conto del contesto, secondo i pragmatici, non possiamo capire cosa vuole comunicare chi parla, poiché il contesto include anche il momento in cui esprimiamo l’enunciato, il luogo, le conoscenze che si hanno in comune, e la relazione che intercorre tra i soggetti, cosa si sa prima della conversazione e cosa no.

L’intonazione, il tono di voce, la lunghezza vocale, sono invece fatti prosodici, cioè di fonologia soprasegmentale. La fonologia è la branca della linguistica che si occupa dello studio dei suoni di una determinata lingua e il modo in cui essi si influenzano tra di loro. Se dico “cane” o “pane”, cambia una sola lettera, un solo suono ma il significato è totalmente diverso, quindi si tratta di un fonema, un suono della lingua con valore distintivo. Una parola la si può scomporre in tanti segmenti (fonemi), ma quando si parla di un fatto che non riguarda i segmenti si parla di fonologia soprasegmentale. Perciò, se si studia ogni singolo segmento, si tratta di fonologia segmentale, ma se si studiano i fatti che prescindono da ciò è soprasegmentale. L’intonazione spesso ci permette di comprendere se ciò che ci viene detto è un ordine, una domanda o un’esclamazione. Spesso, per riconoscere un ordine non basta l’intonazione: anche se un buttafuori ci dice “vuole uscire?” è un ordine perché la forma di domanda serve solo a renderlo più cortese ed è il contesto che ce lo fa comprendere.

Secondo Kant “dovere” implica “potere”. Potere è ciò che si è in grado di fare, la capacità dell’individuo, “essere in grado di…”, anche se può significare “avere il permesso di…”. Alla luce di questa implicazione la parte della filosofia che si occupa del dovere è la deontologia, che deriva dal greco deon (dovere) e lògos (discorso). Nella dimensione del potere, nella frase “questa cosa non la devi fare”, si pensa che si è in grado di astenerti dal farla, ma nella frase “non respirare”, è improbabile che vi sia la capacità di astenersi dal farlo, quindi dovere deve implicare potere. Ma si può riferire all’abilità generica, “non camminare in questo modo”, ma si è abituati a camminare così. In questo momento non si è in grado di camminare così, però ci si può esercitare nel farlo per raggiungere tale scopo. Inoltre, “potere” non di ciò che si può fare in quel momento e riuscire con successo ogni volta, ma ciò che si fa come abilità generica. Ciò che può riuscire altre volte, lo si può fare ma non è necessario che in quell’istante tale azione riesca. Se dico “nuota” e tu non sai nuotare, non posso ordinarti di farlo e pretendere che tu lo faccia. Ma nel caso che tu sappia nuotare e ti dica “nuota”, è un’abilità generica che possiedi, ma se te lo dico in un momento in cui ti si rompe un braccio, in generale lo puoi fare ma in quel momento non ti è possibile. Allo stesso modo bisogna considerare o l’essere in grado di astenersi dal fare qualcosa o qualcosa che tu possa fare a prescindere. Nelle proibizioni si tiene conto sia dell’astenersi e sia dell’abilità generica.

Ci sono le norme permissive, cioè che tengono conto del potere come “l’essere consentito”: se dico “puoi mangiare”, ti consento di mangiare, se ti dò questo permesso è perché so che tu sia in grado di fare tale azione, a prescindere.

Ci si chiede se Potere come “essere consentito” implica Potere come “essere in grado di…”, si possono considerare tre soluzioni:

Se pensiamo che il permesso è mera assenza o mancanza di proibizione, cioè se ti dico “puoi mangiare”, manca la proibizione a farlo, cioè la totale assenza di proibizione (“non puoi mangiare”). In questo caso ci sono cose che è permesso fare ma non ne siamo in grado. Quindi “l’essere consentito” NON implica “l’essere in grado di….”. Esempio: “In Italia si può andare in bici nelle aree specifiche”, ma non vuol dire che si sia in grado di andare in bici;
Se lo consideriamo in termini di proibizione nei confronti di terzi, quindi al di fuori della nostra relazione, si pensa che potere, nel senso di essere consentito implica potere nel senso di essere in grado di. Ad un’agente si possono impedire solo cose che è in grado di fare, quindi potere “essere consentito” implica il potere “essere in grado di…”. Se dico “Luca può mangiare”, ma c’è sua madre o qualche fattore salutare od esterno, che può impedirgli dal farlo, intercorrono precondizioni che possono impedire di svolgere tale azione, a maggior ragione;
Consideriamo il permesso come carattere normativo indipendente, a prescindere, senza che dipenda da altri fattori. Non possiamo dedurre che il potere “essere consentito” implica “l’essere in grado di…”, dal fatto che dovere implica potere.

Si prende la decisione di accettare la condizione “essere consentito” implica “essere in grado di…”, lo consideriamo nello stesso senso di dovere implica potere. L’implicazione è una conseguenza logica necessaria di un fatto: “Chiudi il libro” implica che “il libro è aperto”. Una prescrizione può essere descritta così: “il fatto che il contenuto di una prescrizione è una certa cosa implica che il soggetto della prescrizione può (è in grado di) fare questa cosa”. Ci si chiede se vi è una connessione logica o fisica. Se dicessi “devi nuotare” e improvvisamente si imparasse a nuotare, sarebbe un’implicazione fisica causale, ma il legame tra la norma e l’abilità è un legame concettuale, quindi implica vuol dire “implica logicamente”.

Kant affermava che dovere implica potere, invece, un altro grande filosofo come Hume diceva che “dovere” è diverso da “essere”. Dovere è tutto ciò che riguarda la norma, mentre essere riguarda un fatto. David Hume era un “empirista scettico”, poiché nel periodo in cui elaborò la sua filosofia si stava affermando la corrente dell’empirismo inglese, secondo cui “per conoscere qualcosa bisogna fare esperienza”, quindi la conoscenza prescinde dall’esperienza. Perchè la nostra conoscenza sia qualcosa di valido deve fare esperienza. Ad esempio, secondo un empirista non si può fare esperienza di Dio e quindi non possiamo dire con certezza che egli realmente esista, quindi l’intelletto può produrre conoscenza solo su quello che può percepire. Con Hume l’empirismo ha come esito lo scetticismo: non si può avere una conoscenza certa, perchè nemmeno l’esperienza è certa, è qualcosa di probabile, perché per fare esperienza di qualcosa, prima di arrivare al nostro intelletto, questa cosa deve passare tramite i sensi, è qualcosa di soggettivo. Hume mette in discussione la relazione tra “causa” ed “effetto”, ad esempio nella logica causa/effetto “se ho una ferita mi fa male”, pensiamo che sia qualcosa di certo: io tocco il fuoco (causa) e mi brucio (effetto). Secondo Hume questo non è certo, perchè noi crediamo che sia questa la relazione tra causa ed effetto, poiché siamo abituati che toccando il fuoco ci si brucia, quindi iniziamo a credere che sia così, ma secondo Hume non per forza è così, è solo una nostra abitudine mentale e culturale. Hume scrisse un trattato sulla Natura umana (1738), in cui espresse delle idee (legge di Hume), affermando che c’è una differenza tra l’ ammettere “l’esistenza di un ente” (questa cosa esiste) e l’ammettere che “quell’ente debba esistere” (deve essere), perché dire che una cosa “è”, è una proposizione descrittiva (la stiamo descrivendo) e riguarda l’ontologia, invece, dire che una cosa deve essere è una proposizione prescrittiva, dà una prescrizione (“questo tavolo deve essere rosso”), quindi io voglio che sia rosso, e riguarda la deontologia, poiché ha un valore etico. La legge di Hume, è anche denominata “Is-ought problem”, cioè la questione dell’essere e del dovere. Is è l’essere, ought significa dovere.

I pensieri di Kant e Hume si possono conciliare. Si usa l’espressione modo tollente, che deriva dal latino modus tollents, cioè una regola di inferenza della logica proposizionale, che mette in relazione le proposizioni tra di loro, ovvero quando c’è una proposizione che non è vera capiamo che anche un’altra non è vera. Ad esempio, se io dico “se ci sono i fiori è primavera” ed “è primavera se ci sono i fiori” se ne deduce che “se non ci sono i fiori, non è primavera”. Hume fa una distinzione di dovere: quello come istinto naturale (il dover amare i figli), e quello come obbligo dalla società (il rispetto, la giustizia), che dobbiamo comprendere per il buon funzionamento della società.

Se si deve fare qualcosa non è detto che in quel preciso momento si possa o debba fare, se ne possono trovare ostacoli nel farla. Se dico “devi nuotare”, non è detto che automaticamente tu sia in grado di farlo, se prima non lo eri. Non bisogna confondere le norme dalle proposizioni normative o disposizioni, poiché quest’ultime sono gli enunciati, ciò che viene detto, la forma in cui è espressa, quindi si parla di normativa astratta; invece la norma è ciò che risulta a seguito dell’attività interpretativa di una disposizione e che ne comprende il significato. Non è detto che una norma implichi una proposizione o viceversa, poiché ci sono norme che uniscono più disposizioni, o norme prive di disposizioni, cioè le consuetudini. Ad esempio, è consuetudine che io entrando in una stanza, saluto ma non vuol dire che c’è qualcuno che mi abbia obbligato a farlo. L’implicazione s’incentra tra proposizioni normative (vere o false) e l’abilità umana (sei in grado o meno di fare quella cosa).

L’antecedente è che ci sia una norma, che abbia un suo significato di applicazione e da ciò ne consegue (conclusione) che il contenuto della norma possa essere eseguito. L’abilità di agire è un presupposto delle norme (se tu sai nuotare, puoi saperlo fare senza che io te l’abbia ordinato). “Il fatto che ci sia una prescrizione che impone o permette una certa cosa presuppone che il soggetto della prescrizione possa fare la cosa permessa o imposta”. Non si può decidere che esiste una norma senza prima aver constatato che ne esista l’abilità, quindi essere e dovere sono due cose ben distinte, poiché se tu sei in grado di fare qualcosa, non vuol dire che qualcuno ti abbia detto di farla, ma il fatto che tu sia in grado di farla, vuol dire che qualcuno ti possa dire di doverla fare, quindi l’abilità di agire è un potere presupposto delle norme, ovvero dovere presuppone il potere, non ci possono essere delle norme se non esiste già quell’abilità umana.

Poter fare può voler dire “essere in grado di…”, cioè avere questa abilità generica, o una condizione di successo, se dico “fai canestro”, lo dico perché si ha l’abilità generale nel farla ma in quel momento può capitare che l’azione non riesca per diversi fattori. Questa distinzione si ricollega a quella tra atti (un’azione che si vuole svolgere e di cui ne si è responsabile), eventi (un fatto che avviene o può avvenire), e stati di cose (un modo di essere, la condizione di una cosa) e stati di cose individuali o generiche. Quando diciamo che dovere implica potere, (“devi fare canestro”) e in quel momento non si fa canestro, non vuol dire che non esista la norma, perché si ha l’abilità generica, la si può fare in un’altra occasione, quindi la norma non scompare quando l’agente non ha successo e fallisce. Quando si ha l’abilità generica non è detto che l’agente sia in grado di fare quella cosa in ogni singola occasione, quindi si parla di atti generici. L’insuccesso nell’ubbidire alla norma annienterebbe la norma stessa. Per far sì che una norma sia possibile, bisogna tenere conto del fatto di potere nel senso di “essere in grado di…” generalmente, deve essere compatibile con il “non potere” dell’insuccesso.

Ci sono norme che raffigurano ciò che deve essere (devi essere gentile), che non deve essere, ovvero norme ideali, e quelle riguardo ciò che si deve fare (prescrizioni), ciò che si può e ciò che non si deve fare. Le norme ideali vengono raffigurate con le dimensioni del carattere dell’agente, se dico “devi essere coraggioso”, è detto che tu sia in grado di farlo? Vale il principio di “dovere” implica “potere”? Sembrerebbe di no. Invece, ne segue, che questo principio non si può interpretare in modo che rigorosamente quel che deve essere possa essere, se dico “devi essere coraggioso”, non è detto che tu lo possa essere. Per le norme ideali, questo principio può essere inteso come poter divenire: se un uomo deve essere coraggioso, e non lo è, egli può essere in grado di diventarlo almeno che non lo sia già nel suo stato attuale. Si può sforzare affinché lo diventi. Nell’etica ci si può chiedere se c’è la possibilità che egli diventi in quel determinato modo, in modo naturale. Può capitare in modo naturale, casuale o per grazia di Dio perché ha credenza religiosa, e bisogna tener conto della possibilità che egli diventi conforme a quell’ideale.

Quali sono le ragioni per cui pensare di dover applicare Dovere implica Potere?

Non nel senso di verità, ma nel senso di una verifica empirica, si analizza l’accettabilità, la plausibilità della norma, ciò che la rende degna di approvazione. Non è detto che il principio Dovere implica potere abbia la stessa plausibilità, per ogni tipo o genere di norma.

Ci sono le regole, come quelle di un gioco. Qui tale principio si applica? Ad esempio nelle regole del gioco degli scacchi, esse esistono a prescindere se le persone le conoscano o meno individualmente, ma se sono regole in contraddizione tra di loro, può succedere che nessun giocatore possa agire in conformità a queste regole. Se ci sono regole contraddittorie, il gioco stesso non può esistere, quindi non è più un gioco con regole che lo definiscono. Bisogna poter soddisfare i requisiti, quindi, in questo caso, dovere implica il fatto che si possano seguire tali regole, perché abbiamo l’abilità nel farlo e non sono in contraddizione tra di loro. Se voglio conseguire un certo fine, devo compiere un determinato atto (“voglio essere promosso quindi devo studiare”), ma posso anche pensare di raggiungere un determinato fine indipendentemente dall’atto, se accade come dono del fato (evento casuale) e sono felice del fatto che sono stato promosso. Ma, tale evento, posso farlo realizzare anche senza che ne metta i mezzi per farlo, eppure è qualcosa che si vuole e si spera che accada. Oppure si vuole raggiungere il fine come fine dell’azione, “voglio essere promosso perché voglio riuscire a raggiungere un determinato risultato”, se accade a prescindere dalle abilità, non si è felici, nemmeno se accade per caso, ma si vuole che quell’obiettivo si raggiunga per mezzo delle proprie azioni quindi, in questo caso, si presuppone che sia in grado di fare ciò che è necessario per perseguire il conseguimento di un determinato fine. Può succedere che, anche se si mettono tutti i mezzi per raggiungere un prefissato fine, non si riesca ugualmente. Il fatto che perseguire un fine implichi un’abilità, ha una conseguenza nelle norme prescrittive e sul principio del dovere implica potere nelle norme prescrittive.

La relazione tra prescrizione e abilità è accettabile?
A tale domanda si può rispondere con un esempio: un ufficiale ordina al soldato di nuotare, ma il soldato rifiuta perché non ne è capace. Da un lato pensiamo che quest’ ordine non ci doveva essere dato perché vi è l’impossibilità di nuotare come abilità generica, ma allo stesso tempo non possiamo negare il fatto che ci sia stato dato quell’ ordine. Davanti alla legge, se il soldato venisse punito sotto l’accusa di disobbedienza per nuotare, non sarebbe una punizione giusta poiché, per disobbedire ad un qualcosa, vuol dire che siamo in grado di obbedire, può essere punito per non averlo detto prima, per esempio. L’obbedienza è dove risiede l’abilità di fare la cosa richiesta. Se l’obbedienza non è possibile non si parla di disobbedienza. Da un lato pensiamo che il soldato non era in grado di nuotare quindi non gli si poteva ordinare di farlo anche se l’ordine sussiste, perché gli è stato chiesto.

É possibile dare una prescrizione (carattere emissivo), anche se non si ha l’abilità di fare qualcosa, ma non si può prendere un ordine se non si è in grado. Si può dare un permesso indipendentemente dalle sue abilità ma non si può godere di esso se non si ha l’abilità di fare quella determinata azione, perché ad esempio, se c’è il permesso di andare in bici, ma non ho l’abilità del saper andare in bici, non si può attuare tale azione. Se dicessimo che l’esistenza di una norma dipendesse dal “dare”, sembrerebbe che l’abilità di ciò che è prescritto, non sia un presupposto dell’esistenza delle prescrizioni ma anche se l’esistenza della norma dipendesse dal fatto che essa venga emanata, ciò non vuol dire che questa esistenza non dipenda dalle abilità di chi la riceve. Le prescrizioni hanno origine tramite l’azione normativa che è un modo peculiare dell’azione umana. L’emanazione di una prescrizione è un atto normativo. L’atto è un’azione cosciente e di volontà, propria o esterna, ma non è un’attività. L’attività è l’essere attivo. La conseguenza, è ciò che deriva da una causa degli atti normativi, effetti prodotti dalle prescrizioni sulla condotta di coloro a cui sono rivolte. Se c’è una norma la conseguenza della norma “non fumare” è che le persone non fumeranno. Mentre l’esistenza di una prescrizione è il risultato dell’atto normativo, se esso ha successo. Il risultato è ciò che risulta, come esito, conclusione di un’azione. Un atto, diverso dall’attività, comporta anche l’integrazione dell’attività: ad esempio, per compiere lo spostamento di una sedia è necessaria l’attività muscolare.

Negli atti normativi, l’attività è quella verbale che consiste nel promulgare la norma, viene eseguita nel momento in cui la pronunciamo. Per capire questa differenza possiamo prendere per esempio il “fare una promessa”, cioè usando il linguaggio, la fonazione delle parole. Il fatto che ci sia l’attività verbale, non vuol dire che la promessa sia stata fatta, posso promettere che domani ti insegnerò a volare, ma è qualcosa che non ha fondamento. L’attività verbale serve ai fini dell’atto ma non è sufficiente. Si viene a creare, nel momento della promessa o atto normativo, una relazione normativa perché c’è una relazione tra chi promette (carattere emissivo) e quindi ha l’obbligo di mantenere la promessa, e chi la riceve (carattere ricettivo) che ha delle aspettative. Questa relazione normativa non coincide con la promessa, però quando la fonazione della promessa porta all’istituzione della relazione normativa si può compiere la promessa, si è veramente fatta. Quando viene dato un ordine (attività verbale), tra le due parti (chi dà e chi riceve l’ordine) si viene a creare questa relazione normativa o relazione sottonorma. Quando l’uso del linguaggio descrittivo, ha come risultato l’istituzione della relazione, si può affermare che la norma esiste. Questo segna l’inizio di una norma, ma la norma ha anche una fine, poiché le prescrizioni finiscono di esistere quando le relazioni sottonorma istituite con l’emanazione della prescrizione si dissolvono. Finché esiste questa relazione si dice che la prescrizione è “in forza”, poiché se ha questa condizione allora la norma esiste.

“Non basta pronunciare la norma affinché essa esista ma la sua esistenza sta nel fatto che essa è in forza”.

Claudia Coco
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Claudia Coco è attualmente sociologa e collaboratrice ENASC (Ente Nazionale di Assistenza Sociale ai Cittadini), ANPIM (Associazione Nazione delle Piccole e Medie Imprese) e UNSIC (Unione Nazionale Sindacale Imprenditori e Coltivatori) presso la 5° Circoscrizione di Catania. Laureata in sociologia presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali di Catania con tesi in Sociologia Urbana “Pratiche e approcci del vivere la città. Azioni, spazi e differenze “nei” quartieri di San Berillo”. Si occupa attualmente di studi socio-antropologici presso i quartieri di San Berillo in Catania. Per informazioni e contatti: clacoco28 [chiocciola] gmail punto com