Sociologo. Franco Ferrarotti nasce a Palazzolo Vercellese nel 1926; studia a Torino, Londra e Chicago, laureandosi all’Università di Torino in Filosofia nel 1950, con la tesi su “La sociologia in Thorstein Veblen”, sociologo americano di cui aveva tradotto “la teoria della classe agiata”. Dopo intense esperienze politiche e sindacali, nell’immediato dopoguerra, in nome della sinistra unita, di ritorno da un soggiorno inglese, Franco Ferrarotti incontrava, nel 1948, Adriano Olivetti con cui cominciava una collaborazione.
La collaborazione di Franco Ferrarotti con Adriano Olivetti
A partire dal 1948 fino alla scomparsa di Adriano Olivetti, nel febbraio del 1960, Franco Ferrarotti è uno dei suoi piú stretti collaboratori, in un incontro nello stesso tempo politico, ideologico, spirituale e ideale, avvenuto sulla «strada dell’utopia». L’utopia era legata a una grande sfida progettuale: industrializzare Ivrea senza distruggere l’ambiente; sviluppare il Canavese senza stravolgerne l’anima contadina. Una sfida «locale» che incontrava tuttavia i grandi scenari «globali»: lo sviluppo della democrazia industriale in Europa, la politica delle grandi fondazioni americane; la crescita della cultura delle scienze sociali come strumento di innovazione nella società e nell’impresa.
Nel novembre 1949 era tra i fondatori del Consiglio dei Comuni d’Europa a Ginevra, con Jacques Chaban-Delmas, Jean Bareth, Madame A. de Jager. Insieme con Nicola Abbagnano, Franco Ferrarotti fondava nel 1951, e dirigeva fino al 1967, i “Quaderni di Sociologia”.
Duramente criticato da Benedetto Croce ne “Il Corriere della Sera” del 15 gennaio 1949, alla stroncatura crociana Franco Ferrarotti replica con due saggi nella “Rivista di Filosofia”. Compie studi di perfezionamento a Parigi, Londra e Chicago. È fra i fondatori del Consiglio dei Comuni d’Europa a Ginevra nel novembre 1949. Con Nicola Abbagnano l’amicizia lo porta, nel 1951, a fondare i “Quaderni di Sociologia” a cui da un seguito nel 1967, fondando anche la rivista di cui è ancora direttore, “la Critica Sociologica”.
Già dal 1950 Franco Ferrarotti andava approfondendo i suoi studi sulla realtà sociale della fabbrica ed i problemi del potere sul piano della comunità a Chicago, nell’università in cui Thorstein Veblen era stato, mezzo secolo prima, professore incaricato.
Negli Stati Uniti maturava in lui l’esigenza di collegare, criticamente, la tradizione della filosofia e sociologia sistematica europea con le tecniche della ricerca sociale empirica americana (field-work) in modo tale da impostare in termini nuovi la sociologia, che le dittature fascista e nazista avevano soppresso nelle università italiane e tedesche.
Questo per garantire la ricerca sociologica, sia rispetto al pericolo del frammentarismo non orientato teoricamente, tipico della sociologia americana, sia nei confronti di un pensiero sociale, come quello europeo, teoricamente provveduto, ma privo di controlli empirici adeguati. Tornato in Italia nel 1953, Franco Ferrarotti si stabilisce a Roma, rifiutando incarichi accademici in campi filosofici e affini, dichiarandosi disponibile solo per l’insegnamento della sociologia.
Il periodo dei viaggi
Sono anni di viaggi in Europa, America Latina, India, Estremo Oriente e specialmente Giappone, Thailandia e Birmania. In India, in particolare, Franco Ferrarotti partecipa alla costituzione della prima fabbrica di telescriventi. Come rappresentante del Movimento Comunità, di cui, dopo la rinuncia di Adriano Olivetti, resta unico deputato come indipendente nel Gruppo Misto, fa parte della Camera dei Deputati nella Terza legislatura (1958-1963); non si ripresenta alla scadenza del mandato, avendo nel frattempo vinto, nel 1960, il primo concorso a cattedra per Sociologia, bandito in Italia, e decidendo di dedicarsi in piena autonomia all’insegnamento e alla ricerca.
Nel 1964-65 Franco Ferrarotti è Fellow del Center for the Advanced Study in the Behavioral Sciences a Palo Alto, California, e viaggia nell’Europa dell’Est, specialmente in Polonia, insegnando a Varsavia insieme con Adam Schaff e Zygmunt Bauman.
Franco Ferrarotti tiene corsi e seminari presso università di tutto il mondo, dal Graduate Center della City University of New York all’Università Laval, da quella del Cairo alla Hebrew University di Gerusalemme, all’università di Mosca, Leningrado e Santiago del Cile. Prima dell’esperienza parlamentare, per tre anni, a Parigi, a Chateau de la Muette, aveva diretto la divisione acteurs sociaux presso l’Oece (Organisation pour la cooperation economique europeenne), ora Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo dell’Europa) insieme con Roger Gregoire, Alexander King e altri.
La prima cattedra di Sociologia
Sulla base della prima cattedra, richiesta ed ottenuta nel 1959, dalla facoltà di magistero dell’Università di Roma “La Sapienza”, Franco Ferrarotti costituisce l’Istituto di Sociologia mono cattedra. Insegna anche presso le facoltà di scienze politiche e lettere e filosofia della stessa università.
Con Marcello Boldrini, Bruno Kessler, Mario Volpato, Feliciano Benvenuti, padre Rosa dei gesuiti di piazza San Fedele di Milano partecipa, nel 1962, alla costituzione dell’Istituto Superiore di Scienze Sociali di Trento. Nel 1978 è nominato direttore d’etudes alla Maison des Sciences de L’Homme e all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales a Parigi. Nel 1967 fonda e attualmente dirige “La Critica Sociologica”. Professore emerito di sociologia nell’Università di Roma “La Sapienza”. Insignito del Premio per la carriera dall’Accademia Nazionale dei Lincei il 20 giugno 2001.
Riconoscimenti a Franco Ferrarotti
Per l’importanza del suo operato Franco Ferrarotti è stato nominato, nel 2005, dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi, Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica Italiana. E’ membro della New York Academy of Sciences, del Comitato Scientifico di International Journal of Politics, Culture anda Society (New York), Historia y Fuente Oral (Barcellona), Social Praxis (Toronto), Praxis International (Philadelphia), Società dell’Informazione (L’Aquila), Lo Spettacolo (Roma). Nel corso della sua lunga carriera ha pubblicato più di 60 libri, molti dei quali sono stati tradotti in numerose lingue. Tra questi ricordiamo “La protesta operaia” nel 1955, “Storia e storie di vita” nel 1981, “L’Italia fra storia e memoria” nel 1995, “Guida alla nuova sociologia” nel 2003 e “La strage degli innocenti” nel 2011.
TRA LE OPERE di FRANCO FERRAROTTI
– Sindacalismo autonomo, Edizioni di Comunità, 1950
– Il dilemma dei sindacati americani, Comunità, Milano, 1954
– La protesta operaia, Comunità, Milano, 1955
– Il rapporto sociale nell’impresa moderna, Armando, Roma, 1961
– La sociologia come partecipazione, Taylor, Torino, 1961
– Max Weber e il destino della ragione, Laterza, Bari, 1964
– La sociologia, 1967
– Trattato di sociologia, UTET, Torino, 1968
– Roma da capitale a periferia, 1970
– Fascismo e ritorno, 1973
– Vite di baraccati, Liguori, Napoli, 1975
– Alle radici della violenza, Rizzoli, Milano, 1979
– La società come problema e come progetto, Mondadori, Milano, 1980
– Storia e storie di vita, 1981
– Il paradosso del sacro, Laterza, Roma-Bari, 1983
– Una teologia per atei, 1983
– Homo sentiens, Liguori, Napoli, 1985
– Il ricordo e la temporalità, Laterza, Roma-Bari, 1987
– La sociologia alla riscoperta della qualità, 1989
– Roma madre matrigna, 1991
– I grattacieli non hanno foglie, 1991
– (con Pietro Crespi), La parola operaia, Scuola G.Reiss Romoli, L’Aquila, 1994
– L’Italia in bilico – elettronica e borbonica, Laterza, Roma-Bari, 1994
– Simone Weil: la pellegrina dell’Assoluto, Messaggero, Padova, 1996
– La perfezione del nulla, 1997
– L’Italia tra storia e memoria, 1997
– Leggere, leggersi, 1998
– Partire, tornare, 1999
– La verità ? È altrove, 1999
– L’ultima lezione: critica della sociologia contemporanea, Laterza, 1999
– L’enigma di Alessandro, Donzelli, 2000
– La società e l’utopia, 2001
– La convivenza delle culture, 2003
– L’arte nella società 2005 Ed. Solfanelli
– L’identità dialogica 2007 Ed. ETS
– Il senso della sociologia 2008
– Il senso del luogo, Ed. Armando Armando, 2009
– Spazio e convivenza – Come nasce l’emarginazione urbana, Ed. Armando Armando, 2009
– Arte, Scienza, Società, Ed. Verso l’Arte, 2009
– L’immaginario collettivo americano, Ed. Solfanelli, Chieti, 2010
– Corpo, Dio – Il piacere della carne e la duplicità del femminile, Ed. Verso l’Arte, 2010
– La funzione della musica nella società tecnicamente progredita, Ed. Verso l’Arte, 2010
– La musica post-moderna ha un cuore antico, Ed. Verso l’Arte, 2010
– La strage degli innocenti. Note sul genocidio di una generazione, 2011 Ed. Armando
Franco Ferrarotti – Che cos’è una cultura ?
Franco Ferrarotti: alcuni estratti testuali
Testo n°1
L’ARTICOLO – Franco Ferrarotti: Parole, silenzi
Dal quotidiano “Il Messaggero” 26 maggio 2003
Leggere può sembrare un’operazione passiva, un ritiro dal mondo, una rinuncia. Non è così. Alla fine dell’Ottocento, un critico francese, Albert Thibaudet, distingueva fra lecteur e liseur, potremmo dire fra lettore e leggente. Il vero lettore non è mai un mero leggente. È un inter-autore, un interrogatore del testo, in momenti particolarmente felici può diventare co-autore. Per questo sono, nonostante tutto, ottimista. George Steiner ha scritto pagine dolenti sulla fine della “civiltà della lettura”, di quella che lui chiama ‘bookishness’. È vero che il libro è stato detronizzato, se si vuole, sconsacrato. Ma questo ha il suo lato positivo.
In un’epoca di mass-media, si è forse capito che anche il libro è un mass-medium. Non è più la sola fonte dell’informazione culturale. Guai a dimenticarsene. La sua logica è diversa da quello dell’audiovisivo. Non parla solo all’emozione. Esige silenzio, concentrazione sulla pagina, chiarezza intellettuale. L’audiovisivo seduce con la fulmineità dell’immagine sintetica. Io sono favorevole all’interazione critica fra i vari mass-media.
Ma andrei cauto quando si parla e si attuano “meticciamenti”. Il divertimento è garantito, l’emotività può essere portata al massimo. La comprensione profonda, cartesiana, molto meno.
Testo n°2
L’INTERVISTA – Franco Ferrarotti
Alberto Papuzzi
E’ considerato unanimemente il grande padre della sociologia italiana, il primo ad avere la cattedra nella disciplina, a Roma nel 1960, dopo aver fondato dieci anni prima, con Nicola Abbagnano, i Quaderni di sociologia, prima rivista italiana della materia. Ma adesso Franco Ferrarotti, 84 anni portati spavaldamente, figlio di agricoltori di Palazzolo Vercellese, battezzato il Piemontese errante per quanto ha girato il mondo, denuncia una crisi della sua creatura.
Un libro-intervista appena uscito, Perché la sociologia ?, a cura di due suoi allievi, Umberto Melotti e Luigi Solvetti (edito in collaborazione da Mondadori Università e dall’Ateneo La Sapienza), ricorda un suo recente ammonimento: “Ho cominciato a fare sociologia perché non ce n’era e oggi m’interessa molto meno perché ce n’è troppa”. Parte da questa confessione un Diario di lettura che ripercorre la storia di questo intellettuale straordinariamente poliedrico.
Cosa significa, professore, quell’ammonimento ?
“Naturalmente è un’affermazione paradossale, tipica di chi, come me, soffre del complesso d’Ulisse che una volta tornato a Itaca riparte per le Colonne d’Ercole, cioé non si sente mai pago e cerca sempre nuove sfide. Avendo la sociologia avuto successo, corre il pericolo di trasformarsi da disciplina autonoma, eticamente fondata, in una tecnica che si vende al miglior offerente.”
Come giudica i sociologi dopo mezzo secolo dal loro ingresso nelle università italiane ?
Ci sono ottimi studiosi ma ci sono anche i praticoni. Per praticoni intendo i colleghi che non riescono in altre discipline e perciò si dedicano alla sociologia, senza avere però l’enorma cultura che richiede. Non sono certo contro le contaminazioni: Ilvio Diamanti o Luca Ricolfi sono per esempio giornalisti investigatori che frequentano benissimo la ricerca sociologica. Ma sono eccezioni. In troppi altri casi la sociologia rischia di diventare un refugium peccatorum”.
Lei, da giovane, come è approdato agli studi sociologici ?
“Cercavo cose meno astratte nella filosofia d’allora, idealistica e crociana. Tenga conto che ho studiato da privatista, la mia è stata la formazione di un’autodidatta. All’inizio degli Anni Quaranta i miei mi mandavano al mare, poiché soffrivo di broncopolmonite bilaterale. Mi mandavano a Sanremo e io ne approfittavo per frequentare la biblioteca di Nizza, ricca di saggi di sociologia che non si potevano trovare da noi, coperti com’eravamo dalla soffocante cappa del neoidealismo”
Ma lei all’inizio degli Anni Quaranta era poco più di un ragazzo !
“Proprio così. Pensi che io ho dato la maturità classica da privatista nel 1942 a 16 anni. Ricordo che per filosofia bisognava portare tre libri, io però ne portai sessantacinque, cominciando da Platone e Aristotele, che avevo sempre studiato da solo. I commissari di esame mi guardavano ridendo. Il presidente si chiamava Ermenegildo Bertola (che divenne poi senatore democristiano) e cominciò l’interrogazione quasi commiserandomi. “Sentiamo il Fedro”. Allora io gli chiesi se voleva che mi riferissi all’edizione scolastica di Paravia o a quella di Lipsia del 1872. Durò cinque ore, alla fine Bertola mi disse: «Lei è uno studioso non uno studente» “.
Quale autore e quale libro hanno più influenzato la sua passione per la sociologia ?
“Emile Durkheim, francese di origini ebraiche e alsaziane, fondatore dei Cahiers de sociologie che mi ispirarono i Quaderni di sociologia. Una grande figura di ricercatore autonomo in maniera intransigente, che ha studiato di tutto, dalla divisione del lavoro alle ragioni dei suicidi, autore di un libro prezioso: Le regole del metodo sociologico”.
Si sa che da noi la sociologia ha fatto fatica ad affermarsi: che nemici ha avuto ?
“Innanzi tutto Benedetto Croce, per il quale non si potevano studiare i comportamenti dell’uomo perché voleva dire oggettivarlo. Poi la tradizione cattolica, che prevede di credere nella provvidenza. Infine il marxismo dogmatico, specialmente nella versione stalinista. Uno dei miei primi libri, La protesta operaia, venne stroncato dallo storico comunista Paolo Spriano sulla prima pagina dell’Unità nel 1955”.
Lei ha frequentato due ambienti molto elitari, due centri di vita intellettuale: l’Einaudi e la Olivetti. Da Einaudi arrivò come traduttore, alla fine della guerra. Che personaggi ricorda ? Chi le era più vicino ?
“I miei amici einaudiani erano Felice Balbo, che mi aveva introdotto nella casa editrice, coltissimo, aristocratico, e Cesare Pavese, che avevo conosciuto in tempo di guerra, a Casale dove era sfollato.
Con lui facevo lunghe passeggiate, su e giù per le colline dei dintorni. Ci divertivamo a declamare ad alta voce, naturalmente in tedesco, il “Chorus mysticus” del Faust di Goethe, suscitando lo stupore dei soldati tedeschi che ci capitava di incrociare.”
Quindi nel 1948, tornato dall’Inghilterra, riceve un invito da Adriano Olivetti…
“Era una di quelle offerte che non si possono rifiutare. Un ufficio contiguo al suo, nessun orario di lavoro, massima libertà e indipendenza. Mi occupavo non della fabbrica ma del movimento di Comunità, che era la proiezione politica del sogno imprenditoriale olivettiano. Mi accusarono di aver spinto Adriano ad entrare nella politica, ma il problema era tutt’altro: il nostro piano per il Canavese e l’Eporediese poteva reggere soltanto se aveva una copertura romana. Lui venne eletto deputato nelle elezioni del 1958, unico seggio vinto da Comunità, ma dopo un anno, amareggiato, si dimise, tre mesi prima di morire. Gli subentrai sino a fine legislatura”.
Però poi abbandonò la politica, nonostante molti inviti a proseguire. Come mai non ci credeva più ?
“Perché il movimento di Comunità sosteneva una dura lotta contro i partiti. Siamo stati noi a diffondere il termine partitocrazia, per denunciare l’usurpazione della volontà popolare da parte dei partiti. Mani pulite c’era già e l’avevamo capito. Perciò ho detto sempre di no: a Vittorio Foa, a Riccardo Lombardi, alla Dc di sinistra o al Pci di Berliguer. Per un debito di coerenza. La forma partitica per com’è strutturata impedisce agli uomini di dare il meglio di sé. Ma poi, se devo essere sincero, io lasciai la vita politica perché mi piaceva troppo, mi occupava troppo tempo. Perché io, in realtà, adoravo la vita politica”.
Ma lei frequenta anche la letteratura ? Legge, cioé, testi letterari ?
“Per me la letteratura è un’esperienza fondamentale, anche in relazione agli studi sociologici, perché rappresenta l’autoconsapevolezza con cui una società si esprime attraverso se stessa. Tutt’oggi leggo Pindaro nel testo greco. E poi tutti i poeti latini.”
E qualcosa di contemporaneo ? Qualcosa di narrativa ?
“Vede, dalla letteratura italiana contemporanea sono abbastanza deluso. A parte Pavese. Ho conosciuto Moravia, ma lo considero soprattutto un saggista anche come romanziere. Nelle borgate romane mi capitava di incontrare Pier Paolo Pasolini, che però ci andava per ragioni sue. Il fatto è che noi non abbiamo avuto Balzac o Flaubert a tracciare un solco. Perché notoriamente non siamo una società coesa bensì un arcipelago di culture. Ci sono le eccezioni di Manzoni e Nievo e i loro epigoni. Per esempio io ho amato Riccardo Bacchelli e il suo Mulino del Po”.
Ultima domanda: se può portare solo tre libri sulla proverbiale isola deserta, che titoli sceglie ?
“I detti memorabili di Socrate attribuiti a Senofonte. I frammenti del De re pubblica di Cicerone, in particolare il Somnium Scipionis, in cui l’eroe di Zama spiega al nipote Emiliano che l’ideale è coniugare la vita contemplativa dei greci con quella pragmatica dei romani. Infine, lei non lo crederà, mi porterei Dante, ma non la Commedia, bensì la Vita Nova, suo vero capolavoro”.
Testo n°3
L’INTERVENTO di Franco Ferrarotti
Università “La Sapienza” di Roma – Luglio 2002
La richiesta di informazioni circa le origini e l’idea dei “Quaderni di Sociologia” mi provoca una sorta di tempesta interiore. È un fatto che l’idea dei “Quaderni” viene da lontano e si lega strettamente, forse inestricabilmente, al bisogno e alla passione che fin da giovanissimo avvertivo per la sociologia. È vero che ho sempre avuto dentro di me l’esigenza di una rivista, di poter parlare alle persone conosciute ma anche, e più ancora, a quelle sconosciute attraverso un organo di stampa periodico, di cui fossi responsabile. Un primo tentativo di adolescente lo feci con “Progredi”, un foglio durato pochi mesi. Non è un’esperienza in Piemonte molto originale. Ricordo che proprio a Torino il giovanissimo Piero Gobetti, prima ancora di “Rivoluzione liberale” aveva dato vita a “Energie Nuove”. Correvano gli ultimi anni Trenta. Ero un ragazzo inquieto. A credere alle testimonianze delle persone che allora mi conoscevano, ero anche piuttosto inquietante. Leggevo molto, voracemente, aiutato da una memoria prodigiosa. Per tenermi tranquillo e, fino a un certo punto, sotto controllo, un mio caro cugino primo, Mons. Leopoldo Ferrarotti, mi dava da studiare un canto al giorno della Divina Commedia, la sera per il mattino dopo. Esaurito Dante, mi aveva assegnato le Vite degli uomini illustri di Cornelio Nepote, in latino, tutto a memoria. Alle soglie della pubertà mi aveva colpito quello che dalle nostre parti si chiamava un “esaurimento nervoso”, una sorta di collasso neurovegetativo, complicato da tendenze allucinatorie, forse un sospetto di schizofrenia, scarsa percezione del reale. Il tutto, in un corpo già minato da due broncopolmoniti in giovanissima età, fra i due e i cinque anni, che mi avevano portato in fin di vita. Le sole scuole da me frequentate regolarmente furono i cinque anni delle scuole elementari, con la maestra Piera Mandelli per le prime tre, e il maestro Francesco Rossino, per la quarta e la quinta. Dopo sia alla licenza ginnasiale che alla maturità classica dovetti presentarmi come privatista.
Leggevo tutto il giorno, chiuso nello stanzone all’ultimo piano di casa mia, dove qualche parente aveva disordinatamente accumulato una gran quantità di libri, da un dizionario della lingua piemontese ai sermoni del Cardinale Capecelatro alla Grammatica comparativa delle lingue indoeuropee di Franz Bopp. Leggevo e tossivo. Preoccupati e temendo una fatale ricaduta, i miei mi mandarono a Sanremo, allora come oggi famosa per l’aria buona. Ma i miei non sapevano – non potevano sapere – che a Sanremo trascorrevo le mie giornate nella biblioteca comunale, allora nella Sanremo vecchia, in Piazza del Municipio, 11 o 13.
Prima dei “Quaderni” avevo pensato e cominciato a pubblicare – eravamo agli inizi del 1946 o alla fine del 1945 – un periodico dal titolo programmatico “La rivoluzione umana – Quindicinale della generazione nuova”. Nel titolo si sentiva distintamente l’influenza gobettiana. Benché sostenuto da un contributo e da un abbonamento, del tutto inattesi, dell’allora Presidente della Assemblea Costituente, Umberto Terracini, il periodico non ebbe molta fortuna. Lo stampavo in una piccola tipografia di Casale Monferrato, ancora oggi in funzione. Stampa “La Voce del Monferrato”. Di tendenza essenzialmente anarchica, “inviso a Dio e a li inimici sui”, bruciato in piazza dai fascisti e dai comunisti, “La rivoluzione umana” chiuse i battenti al terzo numero doppio. Ancora non lo sapevo, ma stavo solo facendo le prove per fondare una rivista scientificamente più critica, ma sempre aperta sui problemi del presente, non accademica nel senso deteriore del termine.
Posso dire che l’idea dei “Quaderni” prende corpo dopo il fallimento di “La Rivoluzione umana”, e mi accompagna durante tutta la laboriosa traduzione dell’opera iconoclastica La teoria della classe agiata di Thorstein Veblen, uscita da Einaudi il 3 gennaio 1949. Laureatomi a Torino con Nicola Abbagnano, mi sentivo pronto (eravamo nell’inverno 1949-50 e dall’autunno 1948 avevo incontrato e cominciato a collaborare con Adriano Olivetti) a dar corso all’impresa di una rivista rigorosamente scientifica, ma extra-accademica. Ma perché una rivista? E perché quel titolo? Non ero mai stato uno studente modello. Augusto Guzzo, che aveva rifiutato di firmarsi la tesi (la firmò, generosamente, Nicola Abbagnano a scatola chiusa), mi chiamava il suo “clericus vagans”. Trovavo la filosofia, soprattutto quella neo-idealistica e spiritualistica, che era allora dominante, pomposa e astratta nello stesso tempo; d’altro canto, le lezioni di economia politica di Bordin, che avevo seguito per qualche tempo a Piazza Arbarello (a Torino, dove Bordin teneva le sue lezioni nella Facoltà di Economia e Commercio), mi parevano noiose e inutilmente matematizzate. Volevo qualche cosa di scientificamente rigoroso, ma vicino all’esperienza quotidiana del vivente. Per me, era la sociologia. Con l’idea del ‘l’uomo in situazione’, l’esistenzialista positivo Nicola Abbagnano mi era, senza che io lo sapessi all’epoca, molto vicino.
La prima persona con cui parlai esplicitamente dei “Quaderni di Sociologia” fu una studentessa di Abbagnano che stava per laurearsi, Magda Talamo, e poi ne parlai anche con una sua amica, Anna Anfossi. Insieme si voleva fare un centro di ricerche, che da tempo proponevo, il CRIS (che poi, quando io me ne andai per il mondo, loro due fecero). Recentemente, a Torino, in occasione della commemorazione di Nicola Abbagnano all’Università in Via Po, Magda Talamo, divertita, mi ricordava di quando, un giorno del 1950, la mattina (presto per dei cittadini) saranno state le sei e mezzo o le sette, fu svegliata di soprassalto dal padre che le diceva : “Magda alzati, vestiti: c’è un giovanotto pazzo in mezzo al cortile (era il cortile interno dei vecchi caseggiati degli impiegati e della piccola borghesia) che urla e smanazza: – Magda, vieni giù. Vieni giù subito. Dobbiamo parlare dei Quaderni -“.
Era proprio così. I “Quaderni” erano diventati per me un’ossessione. Ne parlavo spesso anche con Pavese. Cesare Pavese mi consigliava di mettermi insieme con la “cocca” (così diceva) di “Cultura e realtà”, una rivista che stava per uscire a Roma, con Natalia Ginzburg, Mario Motta, Felice Balbo, Giorgio Ceriani Sebregondi, lui stesso e altri. Ma io, a naso, a giudicare dal comitato di redazione, trovavo l’impresa piuttosto precaria, e avevo ragione. Di “Cultura e realtà” non uscirono che due o tre numeri. Una possibilità c’era, con la “Rivista di Filosofia”, che in quel momento era pubblicata da Olivetti con le edizioni di Comunità. Ma giocavano contro questa apparentemente ragionevole soluzione, due difficoltà piuttosto per me massicce: 1) non volevo aver niente da spartire con la filosofia “tradizionale”; 2) in secondo luogo, non volevo fare pasticci con Olivetti; i “Quaderni” dovevano essere gelosi della loro autonomia, né con l’università né contro l’università, ma neppure al servizio di pur nobili ideali; dovevano servire solo a condurre una battaglia strettamente sociologica. Anche per questo motivo, rifiutavo ostinatamente qualsiasi apertura per un incarico di filosofia. No. Ero pronto a imbarcarmi, ma solo per la sociologia.
Fu allora che di fronte alla mia ostinazione, Abbagnano, un giorno di fine ’50, mi invitò a casa sua, in Via Talucchi. Si mangiò; si parlò del più e del meno; lui fumò una mezza sigaretta; io tracannai un bicchiere di rosso. Stavo per andarmene. Marian, mi spiegò, era la sua seconda moglie. Era americana. Non era neppure il caso di dirlo. Lo vedevo da me. Alta, bionda, slanciata, con lo sguardo diritto e fermo di un’autentica businesswoman. Non avevamo parlato molto, ma coglievo una certa simpatia nei suoi occhi chiari. Sulla porta, Abbagnano mi fa: “Senti, Franco. Mi sembra che tu abbia qualche difficoltà a trovare uno che ti stampi i “Quaderni”. Sai, mia moglie Marian ha una piccola casa editrice, la Taylor. Potremmo stamparla noi. Tu naturalmente saresti il direttore e il proprietario, hai avuto tu il permesso di stamparla dalla Questura. Io ti aiuterò”. La sua generosità incantava, detta in poche parole, sottovoce. Nell’estate del 1951 usciva il primo numero dei “Quaderni”, con il mio “Piano di lavoro”, e lui, Abbagnano, in funzione di vice-direttore. La cosa mi sembrò naturale. Ma aveva del miracoloso. Nei miei propositi, i “Quaderni di sociologia” erano innanzitutto uno strumento di battaglia culturale, e nascevano in funzione extra-accademica e anche, occasionalmente, aspramente anti-accademica. A ripensarci, è straordinario come Abbagnano, già da anni professore ordinario nell’università di Torino, mi assecondasse in questo senso. Forse, per capire a fondo questa situazione, bisogna ricordare che Abbagnano si era formato alla scuola di Aliotta, al di fuori dell’influenza crociana e gentiliana. Lombardi (Franco), anni dopo, mi diceva che ero stato io, con la sociologia, ad offrire ad Abbagnano una via d’uscita, attraverso la ricerca sociologica, capace di chiarire le condizioni effettive del ‘l’uomo in situazione’ dell’esistenzialismo positivo di Nicola Abbagnano.
Sta di fatto che fin dai primi numeri dei “Quaderni” Abbagnano incrociò il ferro con grande decisione con i rappresentanti dei neo-idealismo. Era appena uscito il primo numero dei “Quaderni” che apparve, estate del 1951, un articolo duramente polemico di Carlo Antoni, crociano di stretta osservanza, nel settimanale diretto da Mario Pannunzio, “Il Mondo”, che raccoglieva soprattutto gli intellettuali di orientamento liberal-crociano: da Enzo Forcella al giovane Eugenio Scalfari, e i liberali detti “radicali”.
L’articolo di Antoni si intitolava “La scienza dei manichini” e ripeteva le solite obiezioni alla sociologia, considerata come la disciplina che mirava a studiare il comportamento umano, riducendo però le condotte degli individui a rigide tipizzazioni e con ciò negando l’imprevedibile “spiritualità” delle persone. Era il vecchio argomento già usato da Croce nella polemica con Vilfredo Pareto agli inizi del Novecento.
Abbagnano rispose punto per punto con un articolo intitolato “I manichini della scienza”, in cui ritorceva contro i neo-idealisti la loro inadeguata concezione della ricerca scientifica e difendevano la possibilità e, anzi, la necessità di analizzare gli individui e il mondo umano, le condizioni delle persone e la struttura delle istituzioni con gli strumenti delle scienze sociali. Anni dopo, in occasione di un convegno tenutosi a Roma sul tema “Abolire la miseria” al teatro Vittoria di Via Vittoria nei pressi di Piazza di Spagna, in cui avevo tenuto una relazione su “Sociologia e realtà sociale”, insieme con Guido Calogero, Riccardo Lombardi, Ernesto Rossi (gli atti furono pubblicati sulla rivista fiorentina “Criterio”, diretta da Carlo Ludovico Ragghianti), Carlo Antoni riconobbe esplicitamente l’utilità della sociologia non solo come funzione classificatoria, secondo il pensiero di Croce, ma anche come disciplina capace di offrire risultati conoscitivi in senso pieno. Lo stesso anno in cui uscì il primo numero dei “Quaderni”, estate 1951, a giugno partivo per gli Stati Uniti. L’anno prima, 1950, Olivetti era stato colpito dal suo primo infarto. Le iniziative di cui ero responsabile erano praticamente ferme, specialmente per l’opposizione della famiglia. Io decisi allora, contro la volontà dello stesso Adriano Olivetti, di andarmene in America. Anche Pampaloni (Geno) mi sconsigliava di lasciare la Olivetti in quel momento. C’era un gran movimento di posizioni all’interno della ditta: Tullio Fazi, direttore della pubblicità, sarebbe andato a Napoli a dirigere la nuova fabbrica di Pozzuoli; Ignazio Weiss, segretario personale di Olivetti, sarebbe andato alla pubblicità; lui, Pampaloni, stava bene dove stava, a dirigere la biblioteca; sarebbe toccato certamente a me fare il salto e diventare, giovanissimo, segretario personale del Presidente Olivetti, ecc. ecc.
Ma nessuno poteva rendersi conto del fascino che l’avventura, la scoperta dell’America potevano esercitare su un giovane come me.
Il viaggio in America, che allora si poteva fare solo per nave (gli aerei ad elica e poi a reazione sarebbero venuti anni dopo), era ancora concepito come un’impresa pericolosa, ai limiti dell’irresponsabilità. La traversata dell’Oceano Atlantico, che viene oggi familiarmente chiamato l’Atlantic rivers, se non l’Atlantic lake, all’epoca si presentava piena di incognite. Era di dominio pubblico che molti emigranti non erano mai più tornati. Gli anni ’50 sapevano ancora di guerra. Anche per queste ragioni, prima di imbarcarmi su una piccola nave bianca, l’Atlantic, della Home Lines, da Genova, il 10 o l’11 giugno 1951, lasciai a mani di Marian Taylor una lettera di questo tenore (cito a memoria): “Nel pieno possesso delle mie facoltà fisiche e mentali, dichiaro che, in caso di mia morte o comunque di non ritorno dagli Stati Uniti, va riconosciuta la proprietà dei “Quaderni di sociologia” a tutti gli effetti alla casa editrice di Marian Taylor”.
Dalla fondazione a tutto il 1967, quando diressi i “Quaderni”, ebbi grandi soddisfazioni. Forse fu un errore, una volta ottenuta la cattedra all’università di Roma – era la prima cattedra a livello pieno di sociologia nell’università italiana – chiamare alla redazione dei “Quaderni” degnissime persone, che erano però estranee allo spirito originario dell’impresa che, nei suoi indubbi limiti, mi aveva dato notevoli risultati. Basti ricordare che al terzo numero, mentre io mi trovavo negli Stati Uniti, fui raggiunto da una lettera del presidente della Repubblica in carica, Luigi Einaudi, il quale mi mandava alcune carte topografiche e ottime considerazioni sulla divisione della proprietà agricola in quel di Castellamonte, un comune canavesano cui avevo dedicato un rapporto di ricerca in due puntate.
Personalmente, non avendo alcuna esperienza del mondo accademico, essendo a tutti gli effetti un outsider, credo di aver sottovalutato le grandi pressioni che si sarebbero scatenate per nuovi concorsi e nuove cattedre, tanto più che a sociologia, nuova disciplina priva di controllo interni molto rigidi e collaudati (come, ad esempio, medicina e giurisprudenza), avrebbero aspirato tutti coloro che si sentivano esclusi dalle più antiche materie, dai filosofi agli storici e agli italianisti. Ricordo in proposito, poiché la riunione prevedeva anche una discussione sui “Quaderni di Sociologia”, un incontro a Roma nel 1962, nell’ufficio di Sergio Cotta, titolare di filosofia del diritto, alla ‘Sapienza’, con Norberto Bobbio. Questi mi disse (cito a memoria e riassumo): “Caro Franco, hai una grande responsabilità. Resisti alle pressioni. […]”
Testo n°4
IL PROSPETTO DI LAVORO SOCIOLOGICO – di Franco Ferrarotti
“Quaderni di sociologia” – Estate 1951, n. 1, Piano di lavoro
Il piano di lavoro, che qui si presenta, mentre costituisce nelle sue linee fondamentali la piattaforma programmatica essenziale dei “Quaderni di Sociologia”, ne indica insieme l’ordine dei lavori e come tale si può ritenere che esso non sarà presumiblmente esaurito, e avrà quindi piena validità per non meno di dieci anni. I “Quaderni di Sociologia” sono fascicoli che escono periodicamente, ma non a data fissa. Saranno probabilmente trimestrali. Ogni numero ha un proprio contenuto autonomo; si giustifica per quello che offre e può stare a sé. I “Quaderni di Sociologia” si dividono in tre sezioni:
l. una sezione teorica;
2. una sezione di sociologia applicata;
3. una sezione dedicata alla rassegna bibliografica e al notiziario.
1. – La sezione teorica può avere in Italia una certa importanza, soprattutto qualora si consideri come il mondo accademico italiano continui a ripetere tranquillamente il giudizio negativo del Croce, senza per altro approfondirne il senso e senza trarne tutte le implicanze. Occorre però tener presente che da noi le stesse critiche mosse dall’idealismo e soprattutto dal crocismo alla sociologia, alla sua possibilità e alla sua validità scientifica, hanno contribuito a liberare, per quanto parzialmente, la cultura italiana da quei grossolani equivoci meccanicistici e sprovvedutamente pragmatistici, da cui appare particolarmente inficiata, fra le altre, la sociologia americana. Questa prima parte tratta quindi di questioni generali, propriamente teoriche ossia dei princìpi della sociologia. Essa implica una acquisizione critico-espositiva delle verità parziali storicamente prodotte dalle varie “scuole sociologiche”, e l’approfondimento rigoroso di una serie di temi, che indichiamo schematicamente come segue:
1. I fondamenti logici della sociologia come scienza.
2. Dato pragmatico e dato problematico.
3. La sociologia come analisi descrittiva e rilevazione di linee di tendenza (problema della “oggettività” nella sociologia).
4. La concezione del fatto sociale come struttura totale aperta.
5. Le unità di misura e i criteri zetetici della sociologia: il concetto di atteggiamento (interindividuale) e di istituzione come modo di essere collettivo con validità consuetudinaria non codificato in senso giuridico.
6. Esame critico della critica crociana alla sociologia.
7. Dalla sociologia universalistica e filosofeggiante (Comte, Spencer) alla sociologia come scienza rigorosa.
8. La sociologia di fronte alla filosofia: giudizi di fatto e giudizi di valore.
9. La concezione del fatto nel vecchio positivismo.
10. Il concetto di convenzione e il Circolo di Vienna.
2. – È una sezione decisiva e, per la cultura italiana, può veramente rappresentare una novità. Si tratta di raccogliere dati empirici e di organizzarli intorno e in funzione di una definita ipotesi di lavoro o della soluzione di qualche problema posto dallo sviluppo strutturale, badando a non forzarne l’obiettività e quindi senza infirmarne il valore scientifico. Rientrano di diritto in questa sezione indagini e studi particolari, saggi di microsociologia, sociometrica. I temi fondamentali sono forniti da tre ordini di problemi:
a) rapporto città-campagna (definizione di comune rurale; distribuzione e movimento della popolazione; volume del risparmio; tipi di abitazione; urbanesimo; industrializzazione agricola; lavoro a domicilio, caratteristiche; attività misto, semi-agricole, semi-artigianali, industrializzate; morfologia e concetto di “area depressa”);
b) il lavoro industriale (l. tecniche di lavorazione; razionalizzazione dei cicli produttivi ecc.; 2. sistemi di retribuzione; riflessi sulla psicologia operaia ecc.);
c) l’organizzazione della cultura (l. modi e strumenti espressivi, tecniche di distribuzione dei prodotti culturali; 2. l’intellettuale di fronte al mondo della produzione economica; 3. funzione sociale dell’intellettuale: l’intellettuale come elemento eterogeneo e come fattore di omogeneità).
All’inizio e come avvìo, le ricerche toccheranno due zone circoscritte:
a) un borgo cittadino – e precisamente Borgo S.Paolo a Torino;
b) centri rurali, in quanto soggetti alle conseguenze dello sviluppo industriale – e precisamente i comuni canavesani, in abbastanza rapida evoluzione sotto la pressione della fabbrica Olivetti e di altre fabbriche minori.
Come schema di ricerca per la prima raccolta di dati si propone il seguente:
l. Comune:
Frazione:
Popolazione nel 1936
Popolazione attuale (1950).
2. Struttura economica: prevalentemente agricola, industriale.
3. Struttura sociale: composizione della popolazione (operai, contadini, operai-contadini, piccoli, medi e grossi proprietari e industriali, ecc.). Orientamenti corporativi dei vari gruppi sociali.
4. Rapporto delle forze politiche: espressione dei vari gruppi sociali. Partiti politici (omogeneità compattezza, autocoscienza).
5. Autorità costituite: i detentori del potere (politico, amministrativo, religioso).
6. Situazione del bilancio comunale (1940-1950).
7. Numero degli elettori (1950).
8. Risultati elettorali delle elezioni e referendum 2 giugno 1946 e delle elezioni amministrative (prime e seconde). Risultati delle elezioni del 18 aprile 1948.
9. Mezzi della cultura popolare e dell’assistenza sociale: scuole, ospedali, asili.
11. Locali pubblici in diretto rapporto con i modi di vita della popolazione: bar, caffè, alberghi, cinema, teatri, sale da ballo, associazioni sportive, clubs ecc.
Dall’insieme di questi dati dovrebbero risultare le linee caratteristiche della fisionomia di quella che chiamiamo, la “Comunità Canavesana”.
3. – Rassegna bibliografica e Notiziario: le recensioni saranno numerose e, se del caso, ampie e largamente espositive. Recensire i libri nuovi e anche, retrospettivamente, i classici della sociologia. La rassegna bibliografica potrà essere completata da medaglioni, profili biografici, monografie a carattere storico. Il notiziario recherà notizie dei vari gruppi e circoli di studi sociologici nel mondo (congressi, settimane di studio, attività e progetti editoriali ecc.).
A questo punto, prima di iniziare il nostro lavoro, avendone stabilita la tematica essenziale, si impone un riesame della situazione di questi “Quaderni di Sociologia” nella cultura di oggi.
Il piano di lavoro risulta dalla ripresa e dalla riqualificazione del piano di massima, interamente elaborato e steso da me, sotto la pressione di una accumulazione di elementi più o meno omogenei, che durava da circa quattro anni. Questi elementi, allo stato fluido e di puro fermento, si possono tuttavia distinguere abbastanza nettamente in tre filoni principali, ognuno dei quali, autonomo e organicamente dipendente rispetto agli altri, vale e può venire considerato come motivazione e giustificazione (non arbitrarietà) dell’iniziativa:
l. – Inesistenza della sociologia come scienza rigorosa, in Italia e fuori d’Italia. In Italia l’influenza del neoidealismo ha precluso per un certo tempo ogni possibilità di studio e, in genere, di attività teoretica in questo senso. Fuori d’Italia l’empirismo, nelle sue svariate versioni (pragmatismo, scientismo, evoluzionismo unilineare, comportamentismo, antropologismo etnografico, psicologismo, ecc.) si è rivelato insufficiente. Fondare logicamente la sociologia come scienza e a garantirla come tale.
2. – Possibilità e quindi necessità di aprire inchieste e indagini particolari e circoscritte, pur con la estrema povertà di mezzi e la rudimentalità degli strumenti zetetici, di cui si dispone, che servano a sbloccare sul piano della ricerca viva, colta nel suo momento induttivo, gli apriorismi del sociologismo tradizionale (denuncia e avvìo di una aporetica sistematica) e nel contempo valgano come verifica delle singole ipotesi di lavoro, in prima istanza, nonché dei princìpi generali della ricerca ossia dei principi primi della scienza (integrazione e definizione del rapporto della sociologia rispetto alla filosofia e alle scienze).
Questo punto programmatico, e la seconda sezione che nel piano di lavoro gli corrisponde, non solo cade per gran parte fuori del mondo culturale accademico, come è tradizionalmente e a tutt’oggi inteso, ma potrà vivere e svilupparsi coerentemente e in modo omogeneo solo a condizione che si riesca a stabilire un contatto permanente e una collaborazione, basata su una divisione del lavoro di tipo nuovo, fra gli uffici-studi e i centri di raccolta dei dati empirici (industriali, statali, privati ecc.) e il sociologo propriamente detto, ossia l’organizzatore metodico dei dati elementari, di per sé muti o equivoci, in un sistema di conoscenza, cui non potrà mancare, in ultima istanza, una sua validità, operazionale (terapeutica) nella realtà effettuale.
3. – Opportunità di divulgare certe tecniche di ricerca e alcune verità parziali acquisite dalla sociologia, quale si configura in determinate situazioni culturali europee e americane, nella cultura italiana, anche fuori del mondo accademico e della cultura ufficiale.
Da questo punto di vista l’iniziativa dei “Quaderni di Sociologia” può apparire ed è effettivamente una iniziativa pubblicistica, la quale tende a portare sul “mercato” della cultura italiana certi prodotti che la situazione strutturale, italiana non ha ancora espressi e per questo non va disgiunta da una “mondanità”, che nel notiziario trova il suo posto legittimo e naturale.
A questa funzione dei “Quaderni di Sociologia” non si attribuisce, ovviamente alcun valore esemplare, sibbene di pura informazione, la quale può invece fornire una riprova dello sviluppo ineguale delle strutture.
Testo n°5
Intervista a Franco Ferrarotti:
“Un colpo di reni dalle intelligenze dei nostri giovani”
Agosto 2014 – Di Luigi Crimella
Come resistere nell’era della grande crisi? E’ la domanda che il Sir intende porre ad alcuni studiosi per comprendere dove stiamo andando e come uscirne. Qui di seguito la prima intervista a Franco Ferrarotti, professore emerito di sociologia alla Sapienza di Roma, che nella sua lunga attività si è occupato, tra l’altro, di sociologia industriale, sindacati, urbanesimo, religione, razzismo. Lavoretti precari, micro-stipendi, rarissimi contratti a tempo indeterminato, matrimoni rinviati “sine die”, futuro nebuloso: cosa sta succedendo ai nostri giovani?
“Non solo ai nostri giovani, ma a tutti noi cosa sta succedendo: questa è la domanda. Comincio da noi sociologi, con un mea culpa. Siamo venuti meno al nostro compito e alla nostra responsabilità. Alcuni pensano che in una società ‘liquida’, anzi squagliata come quella attuale, basterebbe saper ‘nuotare’ o almeno galleggiare. Altri, come Touraine, parlano di dibattiti come soluzione. Habermas punta sull’agire comunicativo, strumentale ed espressivo. In realtà noi viviamo in una società saturnina, che mangia i propri figli dopo averli generati, come Kronos.”
Come se ne esce?
Il fatto è che ci troviamo davvero in una società ‘liquida’, nel senso di debole, incerta, totalmente amministrata da gruppi dirigenti la cui mediocrità, oltretutto contagiosa, ci sta portando al disastro. Dire come se ne esce non è facile: per fortuna credo che, come sempre accade, ci siano ancora degli ammortizzatori più o meno segreti. Uno di questi, il principale, è la famiglia: essa tiene in piedi ancora una volta la società. Però non ha validità perenne, perché i suoi risparmi, di generazioni, hanno consistenza fino a un certo punto, e si fanno sempre più magri. Forse stiamo perdendo ciò che finora ha garantito quel tanto di coesione sociale e di fatto dato consistenza alla nostra società”.
Eppure l’Italia, fino a pochi anni fa, era considerata la quinta o sesta “potenza mondiale”. Dove siamo finiti?
‘Abbiamo un passato glorioso. Eccellenze storiche, artistiche e anche economiche che tutti ci riconoscono. Nel secondo dopoguerra, dal 1950 al 1980 o poco più, in una generazione e mezza il nostro Paese ha conosciuto una rivoluzione industriale che in Gran Bretagna ha richiesto due secoli. Oggi però siamo diventati una società stagnante, con monsignori’ inamovibili, una classe dirigente cioè che mira a durare e non a dirigere.
E giusto che a pagare siano soprattutto i giovani?
“Noi adulti abbiamo le nostre colpe, e sono tante. Ma i giovani forse sono vittime dell’effetto esteriorizzante dei mezzi di comunicazione: sono frenetici e passivi allo stesso tempo non si guardano dentro, non si identificano, non hanno senso del destino sono foglie e a vento. Polvere Detto tutto questo, i migliori purtroppo dopo averli formati fino alla laurea e al dottorato, li regaliamo” ai Paesi stranieri. Li obblighiamo ad andare a trovare il pane fuori’.
Come impedirlo, se da noi non c’e offerta di posti?
Certo è difficile, ma all’estero vengono apprezzati subito. Nel secolo scorso abbiamo esportato carne
‘carne giovane’ in Argentina, Stati Uniti, Canada, per non parlare dell’Europa. Oggi esportiamo menti raffinate e preparatissime. Praticamente regaliamo agli altri Paesi i nostri cervelli più brillanti e attivi. Per badare al nostro pesante debito pubblico ci stiamo creando un debito intellettuale e morale ancora più grande, Sembra che alla fine lei sia pessimista.
‘Dobbiamo smetterla di regalare al mondo le nostre cose migliori, senza mantenere per noi l’essenziale. L’Italia può essere uno dei primi Paesi su scala mondiale per intelligenza teoretica e per scienza applicata alla produzione. Siamo anche un Paese dove si coltiva il vero gusto di vivere, mangiare, divertirsi. Dobbiamo darci un colpo di reni e resto ottimista sulla capacità di recupero del nostro popolo”.
Da chi verrà questa salvezza?
‘Penso da sforzi molecolari di base, non conosciuti ma generosi. I governanti devono fare la loro parte, perché meritiamo un presente e un avvenire migliore della situazione in cui stiamo in qualche modo sopravvivendo”.
Video con Franco Ferrarotti
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