Erving Goffman Pensiero e sociologia del grande sociologo americano
Erving Goffman nasce in Canada nel 1922.
La sua formazione accademica avviene tra Toronto, dove consegue la laurea in antropologia e sociologia, e Chicago, dove ottiene una laurea magistrale e un dottorato. In quest’ultima, in particolare, subirà una forte influenza dal modello dominante all’epoca, ovvero l’interazionismo simbolico. In occasione della la sua tesi di dottorato intraprende una ricerca sul campo, i cui dati raccolti formano la base della sua opera più famosa, ovvero “The presentation of Self in everyday life”, nel 1959.
Erving Goffman – Pensiero – L’interazionismo simbolico
È risaputo che l’interazionismo simbolico si concentra sulle micro-interazioni e gli scambi tra individui e piccoli gruppi di persone. L’idea base della stessa corrente teorica sta nel considerare il sé individuale soprattutto come un’entità sociale: il sé non è un prodotto dell’unicità psicologica del singolo, ma rivela un’origine sociale e una contingenza storica e culturale.
Chi siamo convinti di essere e chi siamo in grado di diventare sono questioni legate al tipo di persone con le quali interagiamo e dai contesti istituzionali nei quali viviamo. La semplice presenza fisica di un soggetto all’interno di un determinato contesto, rappresenta di fatto un comportamento e ha, quindi, un effetto comunicativo.
Cosicché negli scambi comunicativi interpersonali, il soggetto coglie la necessità di gestire strategicamente la rappresentazione o la facciata che vuole mostrare di sé nelle diverse occasioni relazionali e comunicative.
Il modello drammaturgico e la metafora del teatro
Erving Goffman propone un approccio microsociologico per esplicare quanto emerso, denominandolo il “modello drammaturgico”.
L’idea base sottostante alla teoria di Goffman è l’utilizzo della metafora del teatro. In questa prospettiva, le particolari istituzioni della società per essere studiate, sono metaforicamente analizzate come se fossero delle rappresentazioni teatrali dotate di attori.
In essa si distinguono due momenti: quello del retroscena, caratterizzato da un assenza del pubblico, dove non vi è necessità che l’attore controlli le impressioni, potendo anche uscire dal personaggio per essere se stesso, per aggiustare e mettere a punto le sue rappresentazioni; e quello della ribalta, dove l’attore si mette in scena con un copione a cospetto di un pubblico.
Secondo Goffman, noi tutti, in quanto attori professionisti, nell’impresa di impersonificare ruoli particolari, cerchiamo di creare una percezione pubblica di noi stessi che sia in conformità con i nostri desideri. Come già detto, la preparazione delle nostre prestazioni ha luogo nel retroscena, allo stesso modo degli attori, selezioniamo i nostri costumi e cerchiamo di convincere il nostro pubblico delle nostre prestazioni in modo tale che questi accettino le autorappresentazioni che offriamo come se fossero reali.
Come nel caso del teatro, le nostra rappresentazioni possono avere successo oppure no. Non riuscire nelle nostre prestazioni, non è solo una minaccia per le nostre capacità ma anche una minaccia all’ordine delle nostre relazioni sociali. Quindi, l’indagine svolta da Goffman riguarda gli aspetti più trascurati dal mondo quotidiano, dove la componente drammaturgica degli incontri sociali è fortemente presente.
La vita quotidiana è tematizzata come un gioco di rappresentazioni, nel quale l’identità dell’individuo coincide di volta in volta con le maschere che egli indossa sui diversi palcoscenici. Il sé non ha origine nella persona del soggetto, bensì nel complesso della scena della sua azione. L’individuo non sarebbe altro che un effetto drammatico creato dalla stessa scena rappresentata.
Si giunge alla conclusione che il soggetto è una pura maschera scaturita dalla messa in scena sociale, le cui regole e caratteristiche strutturali determinano le diverse parti recitate dal soggetto stesso. L’attore sarebbe diverso dal personaggio, ma ha la capacità di apprendere i ruolo che sono necessari al buon funzionamento della società.
La devianza
Un altro ambito di particolare interesse per Erving Goffman è quello della devianza e dai processi di natura sociale che portano alla stigmatizzazione di individui e gruppi. La devianza è un aspetto implicito nella nozione di stigma perché deriva dalla percezione che un individuo o un gruppo si sia allontanato dalle norme imposte dalla società che governano la condotta interpersonale. Quando una persona devia dalle norme sociali, viene stigmatizzata e marginalizzata dal gruppo o dalla più ampia comunità sociale alla quale appartiene.
Nel suo studio rivoluzionario, riportato poi nella sua opera denominata “Stigma. Identità negata” del 1963, Goffman analizza il comportamento di individui la cui identità è definita in un certo senso difettosa, distinguendo l’identità sociale virtuale e quella attuale. La prima è la versione di sé legittimata dalla società che gli individui sono tenuti a mostrare in pubblico, mentre l’identità sociale attuale è l’identità personale che gli individui immaginano di possedere nella sfera privata.
Secondo Goffman, lo stigma sorge quando la frattura tra le identità sociali virtuale e attuale si fa insanabile. Quindi in sostanza, lo stigma non è altro che il risultato della condivisione da parte dei membri della società di attitudini e aspettative comuni sul comportamento e sull’aspetto che le persone dovrebbero assumere in determinate situazione sociali.
Goffman identifica tre caratteristiche del concetto di stigma:
– Non è un aspetto intrinseco di un individuo.
– È una classificazione negativa che emerge dalle interazioni e dagli scambi tra individui o gruppi.
– Ha una natura processuale, cioè assumere un’identità stigmatizzata è un processo mediato dalla società.
Allo stesso modo Erving Goffman chiarisce ulteriormente il concetto di stigma, identificando tre categorie diverse:
– Deformazioni del corpo (disabilità fisica, obesità, ecc).
– Imperfezioni del carattere (disturbi mentali, omosessualità, ecc).
– Stigma tribale, che prevede l’emarginazione sociale sulla base dell’etnicità, nazionalità, religione, ecc).
Erving Goffman, nella sua opera, descrive anche i tentativi degli individui di rispondere e di far fronte alla classificazione negativa. In questo contesto fa riferimento al controllo delle impressioni, cioè una nozione che mette in luce le varie strategie adottate per cercare di presentare agli altri la versione favorevole di sé, evitando così la stigmatizzazione.
Quando queste strategie falliscono o si rivelano impraticabili, il possessore di uno stigma è portato a cercare categorie sociali che ritiene possano mostrare un atteggiamento comprensivo nei suoi confronti.
Anche in questo caso Erving Goffman identifica tre tipologie di persone che possono svolgere questa funzione:
– Il proprio gruppo: persone che possiedono lo stesso attributo stigmatizzato.
– Il gruppo dei saggi: persone che lavorano in un ente che si occupa di sostenere coloro che possiedono un determinato attributo stigmatizzante.
– Il gruppo empatizzante: persone che lo stigmatizzato conosce bene e che probabilmente mostreranno un atteggiamento empatico nei suoi confronti.
In ambito sociologico, la dettagliata osservazione di Goffman delle interazioni umane e delle dinamiche interpersonali all’interno di gruppi è considerata senza pari. Erving Goffman, per primo, ha indagato sulla capacità e la misura in cui gli individui sono in grado di modificare la propria identità. In ambito politico, poi, la sua riflessione ha permesso di studiare il reinserimento di individui stigmatizzati nelle comunità e, soprattutto, ha offerto gli strumenti per comprendere e gestire il problema della stigmatizzazione di gruppi minoritari all’interno delle moderne società multiculturali.
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