All’inizio degli anni ’70, Philip Zimbardo e il suo team della Stanford University intrapresero uno studio volto a indagare fino a che punto il contesto sociale e i ruoli assegnati potessero influenzare il comportamento umano. L’idea era semplice ma ambiziosa: creare una prigione simulata e osservare come studenti universitari, persone apparentemente normali, avrebbero reagito se divisi in guardie e prigionieri. Lo studio, noto come Stanford Prison Experiment, rappresenta ancora oggi un caso paradigmatico nella psicologia sociale, evidenziando quanto le dinamiche di potere e le strutture sociali possano modellare sia il comportamento che la percezione di sé.
I partecipanti furono reclutati tramite annunci universitari e ricevettero un compenso per la partecipazione. Tra i volontari, Zimbardo selezionò solo quelli psicologicamente sani e con stabilità emotiva, escludendo chi mostrava segni di fragilità o problemi emotivi. Successivamente, l’assegnazione ai ruoli di guardie o prigionieri avvenne in maniera casuale, garantendo che le differenze comportamentali osservate emergessero dall’esperimento stesso e non da caratteristiche personali pregresse.
Nei sotterranei dell’università fu allestita una prigione simulata, completa di celle, regolamenti rigidi e procedure controllate. I prigionieri furono “arrestati” dai poliziotti fittizi, trasportati nel carcere simulato e sottoposti a procedure tipiche di una prigione reale: furono denudati, registrati e dotati di numeri identificativi. La vita quotidiana era rigidamente regolamentata: orari precisi, restrizioni fisiche e attività imposte dalle guardie. Fin dai primi giorni, queste ultime iniziarono a esercitare un’autorità sorprendente: inventavano punizioni arbitrarie, stabilivano regole assurde e, in alcuni casi, manifestavano aggressività psicologica verso i prigionieri, testando i limiti della loro obbedienza e conformità. I prigionieri reagirono in modi differenti: alcuni si ritirarono emotivamente, altri svilupparono ribellioni simboliche, mentre alcuni furono sopraffatti dall’ansia e dallo stress, mostrando segni di crisi emotive tali da dover essere rimossi dall’esperimento. In pochi giorni, ciò che era stato concepito come una simulazione si trasformò in un microcosmo sociale in cui il potere dei ruoli modellava profondamente le interazioni.
Dal punto di vista psicologico, l’esperimento mette in luce fenomeni come la de-individuazione, in cui il senso del sé individuale si perde sostituito dal ruolo sociale, e il conformismo ai ruoli, che spinge gli individui ad adattarsi alle regole e ai comportamenti attesi dal gruppo. Sul piano sociologico, lo studio evidenzia come istituzioni, norme sociali e gerarchie possano plasmare le relazioni tra individui, creando contesti in cui determinati comportamenti vengono amplificati o repressi e dimostrando l’influenza del contesto sociale sull’azione individuale.
Il contributo teorico di George Herbert Mead risulta particolarmente pertinente. Secondo Mead, il sé e l’identità si costruiscono attraverso l’interazione con gli altri e la percezione di come gli altri ci vedono. Lo Stanford Prison Experiment ne è un esempio empirico: i partecipanti hanno modulato il proprio comportamento in funzione del ruolo assegnato e delle aspettative reciproche, sperimentando diverse configurazioni del sé. Le dinamiche tra guardie e prigionieri mostrano come i ruoli sociali e le interazioni quotidiane siano strumenti potenti nella formazione dell’identità, influenzando non solo il comportamento, ma anche la percezione che gli individui hanno di se stessi e degli altri.
L’esperimento di Zimbardo dimostra con forza quanto i ruoli sociali e le strutture gerarchiche possano plasmare il comportamento umano e modellare l’identità individuale. Non si tratta solo di osservazioni teoriche: queste dinamiche emergono in contesti reali, dalle istituzioni carcerarie alle organizzazioni quotidiane, influenzando le interazioni, le norme e persino la percezione di sé. Collegando i risultati alla prospettiva di Mead, appare chiaro che il sé non è un’entità statica, ma un costrutto dinamico, continuamente negoziato attraverso le relazioni sociali. In definitiva, lo Stanford Prison Experiment resta uno degli studi più illuminanti per comprendere l’intreccio tra contesto sociale, ruoli e formazione dell’identità, offrendo spunti preziosi per sociologi, psicologi, criminologi e chiunque voglia approfondire la complessità del comportamento umano.
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