Rivoluzione francese: la Presa della Bastiglia
di Paolo Gerolla
La Presa della Bastiglia – Inquadramento storico
Un evento importante come la presa della Bastiglia va inquadrato storicamente per comprenderne appieno cause e ragioni. Gli sperperi della corte e le gravose spese sostenute per le guerre dinastiche e di prestigio, avevano gravemente dissestato le finanze dello Stato francese.
Per porre rimedio a questa situazione, Luigi XVI assegnò il ministero delle finanze a Anne Robert Jacques Turgot, barone di Laulne, un insigne economista, che venne però licenziato poco tempo dopo la sua nomina per aver osato proporre la diminuzione delle spese della corte.
Il suo successore, il banchiere svizzero Jacques Necker, tentò di evitare la bancarotta dello Stato ricorrendo ad una politica basata sul prestito pubblico, ma anch’egli durò poco nella sua carica: venne infatti licenziato a causa di una manovra della nobiltà di corte, subito dopo aver reso pubblico il bilancio dello Stato, dal quale si evincevano gli scandalosi sprechi della corte. Al suo posto venne nominato Charles Alexandre de Calonne, che cercò di non inimicarsi l’aristocrazia, consentendo le spese più folli, salvo poi tentare di porre rimedio alla imminente bancarotta suggerendo, nel corso dell’assemblea dei notabili del regno di sottoporre a tassazione i ceti privilegiati. Inutile dire che tale proposta venne immediatamente rigettata dai diretti interessati, e Calonne fu costretto a rassegnare le dimissioni.
Al suo posto venne insediato l’arcivescovo di Brienne che, al pari del suo predecessore, propose la tassazione dei ceti privilegiati ma senza ottenere nulla, in quanto gli interessati asserirono che solo gli Stati Generali avrebbero avuto il potere di approvare nuove imposte.
Gli Stati Generali, ovvero l’assemblea generale dei rappresentanti della Nobiltà, del Clero e del Terzo Stato, che in passato aveva coadiuvato i re nelle decisioni di maggiore importanza, dal 1614 non si era più riunita, ma i ceti privilegiati facevano affidamento su di essa per mantenere i propri privilegi. Il Governo, pressato dalla nobiltà aderì alla richiesta di convocare gli Stati Generali, ma nel corso della campagna elettorale, si vide costretto a raddoppiare il numero dei rappresentanti del Terzo Stato, che in questo modo pareggiava il numero di rappresentanti degli altri due Stati messi insieme.
L’assemblea uscita dalle elezioni si riunì il 5 maggio 1789 a Versailles: si pose immediatamente la questione del sistema di votazione da adottare.
In precedenza si usava votare per ordini ed in tal modo i due voti della Nobiltà e del Clero avrebbero potuto facilmente aver ragione dell’unico voto spettante al Terzo Stato.
Quest’ultimo propose quindi la votazione per testa, che le avrebbe assicurato la supremazia essendo il numero dei suoi rappresentanti pari a quello degli altri due ordini messi insieme.
Contro l’oppsizione opposta dalla corte e dagli altri due ordini, i deputati del Terzo Stato, trovata chiusa la sala delle riunioni, occuparono un altro salone, generalmente utilizzato per il gioco della pallacorda, ed in questo ambiente si costituirono in “Assemblea Nazionale”. Essi si ostinarono a non sgomberare la sale neppure quando ad intimarlo, con la minaccia dell’uso della forza, fu un rappresentante del re.
Di fronte a tale risolutezza, Luigi XVI cedette, soprattutto perchè non era certo di poter contare sull’appoggio unitario dei membri della Nobiltà e del Clero: una parte dei rappresentanti di questi due ordini aveva infatti fatto causa comune con il Terzo Stato e lo aveva raggiunto nella sala della pallacorda.
Il 7 luglio, il re ordinò ai rappresentanti del Clero e della Nobiltà di riunirsi al Terzo Stato: tale assemblea, così ricomposta, prese il nome di Assemblea nazionale costituente ed ebbe il compito di redigere una costituzione per la Francia.
L’arrendevolezza della corte mirava a prendere tempo e raccogliere un numero sufficiente di truppe necessarie a disperdere il Terzo Stato.
Nei giorni che seguirono, forti contingenti di mercenari tedeschi e svizzeri affluirono attorno a Parigi, ma queste manovre non sfuggirono alla popolazione che si preparò alla rivolta.
La sommossa scoppiò quando il popolo venne a sapere del nuovo licenziamento del ministro Necker, che Luigi XVI era stato costretto a richiamare nei mesi precedenti: una moltitudine di popolani inferociti, il 14 luglio del 1789 (data che segna l’inizio della Rivoluzione Francese) prese d’assalto la Bastiglia, la terribile prigione nella quale venivano incarcerati i prigionieri politici e, dopo averne sterminato la piccola guarnigione la rase al suolo. Nel corso della rivolta, le truppe francesi fecero causa comune con la popolazione di Parigi.
Non potendo più contare pienamente sull’esercito, il re richiamò nuovamente Necker e ordinò il ritiro delle truppe mercenarie da Parigi.
La borghesia parigina approfittò del caos del momento per prendere possesso dell’amministrazione comunale e per organizzare una Guardia Nazionale composta da giovani borghesi, per tutelarsi dalle trame dell’aristocrazia, ma anche contro i possibili moti popolari. In quell’occasione venne esposta per la prima volta la bandiera francese come appare ancora oggi: il bianco della casa di Borbone, il rosso ed il blu della municipalità di Parigi.
Gli avvenimenti della capitale, giunti in forma frammentaria e distorta nelle campagne, diffusero tra i contadini un’ondata di terrore: essi temevano che gli aristocratici, nel tentativo di deludere le speranze suscitate dalla convocazione degli Stati Generali, intendessero avviare una campagna di repressione contro il popolo. Mossi da questa paura, essi raccolsero tutte le armi sulle quali potevano fare affidamento (falci, forconi, roncole ed altri strumenti di lavoro atti all’offesa), ed istituirono in ogni villaggio delle pattuglie che a turno dovevano vigilare sulla sicurezza degli abitanti del luogo.
Una volta armati, i contadini si resero conto della forza del loro numero e iniziarono ad assaltare i castelli dei nobili, con l’intento di distruggere le carte che attestavano i diritti feudali dei proprietari.
Tra il mese di luglio e l’agosto del 1789, prese il via una possente rivolta contadina che si sviluppò in tutta la Francia: i nobili che opposero resistenza vennero sopraffatti e molti castelli vennero dati alle fiamme.
La rivolta si estese anche alle città di provincia, nelle quali trovò compimento quella che venne definita la rivoluzione municipale: la borghesia si fece consegnare la maggior parte delle amministrazioni comunali, prendendo il posto dei nobili che prima le dirigevano. Nel contempo, per difendere le loro proprietà di campagna dalla rivolta dei contadini, i borghesi di queste città costituirono anch’essi una Guardia Nazionale che, in diverse località della Francia, effettuarono delle spedizioni nelle campagne con lo scopo di sedare le rivolte.
La rivolta contadina incuteva un grande terrore nei membri della Costituente, una gran parte dei quali erano proprietari di fondi agricoli. Per calmare i contadini l’Assemblea decise di abolire i diritti feudali.
Tale provvedimento venne approvato il 4 agosto del 1789 e l’evento venne celebrato come un grande atto di generosità da parte della nobiltà, che si associò ai borghesi nell’approvazione della legge. In realtà non di generosità si trattava, ma bensì di un’astuta mossa di politica economica: i diritti feudali vennero aboliti, ma in realtà essi non rendevano molto ai beneficiari, mentre la loro continuazione minacciava di provocare un’insurrezione i cui sviluppi avrebbero potuto rivelarsi disastrosi. Tali diritti ovviamente non vennero aboliti senza un’indennità da riconoscere al cedente: una buona parte di essi doveva infatti essere riscattata dai contadini ad un costo tale che avrebbe reso al beneficiario molto più di quanto egli potesse ottenere con la riscossione dei diritti stessi. In ogni caso la legge approvata il 4 agosto servì a riportare la calma nelle campagne.
L’Assemblea nel frattempo, prepose alla costituzione che intendeva dare alla Francia, una Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino in 17 articoli, che venne votata il 26 agosto del 1789. Questa dichiarazione era ispirata alle idee del diritto naturale, come si evince dall’articolo 1: “Tutti gli uomini nascono e vivono liberi e uguali nei diritti”. I 17 articoli si limitavano a citare i principi essenziali del nuovo diritto pubblico e privato, lasciando alle future leggi il compito di determinarne l’applicazione pratica.
Tuttavia, le leggi che seguirono limitarono notevolmente i principi giuridici sanciti dalla Dichiarazione e in varie occasioni entrarono in aperto contrasto con essa. Nonostante ciò, la Dichiarazione assumeva una notevole importanza storica poichè, proclamando la libertà e l’uguaglianza naturale degli uomini, essa abbatteva il diritto feudale, basato sulla disuguaglianza giuridica degli uomini e dei ceti sociali, aprendo la strada ai successivi miglioramenti delle leggi e degli ordinamenti politici e sociali.
La corte fu costretta a subire gli eventi, ma non era affatto intenzionata a cedere. I conti di Artois e di Provenza, fratelli di Luigi XVI, dopo la distruzione della Bastiglia avevano lasciato la Francia trovando rifugio all’estero, seguiti da un buon numero di aristocratici; dall’esterno essi progettavano, con l’aiuto delle monarchie europee un intervento armato per riportare le cose come si trovavano prima del 14 luglio.
Rinfrancato da queste notizie, il re si irrigidì rifiutando di approvare sia la Dichiarazione dei diritti che l’abolizione dei diritti feudali e tutte le altre leggi che le venivano sottoposte dall’Assemblea. Inoltre Luigi XVI aveva dato ordine di riprendere il reclutamente di truppe mercenarie per tentare un colpo di mano contro l’Assemblea.
A Parigi ciò provocò una sollevazione di popolo, sollevazione acuita dalla carestia causata dal cattivo raccolto e dalla mancanza di viveri dovuta all’acquisto massiccio di generi alimentari effettuta da speculatori senza scrupoli. L’agitazione culminò con la cosiddetta “marcia su Versailles”: il 5 ottobre migliaia di persone, donne, uomini e appartenenti alla Guardia Nazionale parigina si misero in cammino verso la reggia di Versailles per protestare contro la fame che stava affligendo la capitale. Tutti costoro invasero la reggia, riuscendo a raggiungere gli appartamenti reali: Luigi XVI e la sua famiglia furono costretti a trasferirsi a Parigi, dove fissarono la propria dimora nel palazzo delle Tuileries. Anche l’Assemblea si trasferì nella capitale, nella quale essa potè lavorare con maggior sicurezza.
L’opera svolta dalla Costituente
Nell’arco di tempo compreso tra il maggio 1789 e il settembre 1791, immensa fu l’opera svolta dall’Assemblea costituente, a dimostrazione del grado di maturità e della competenza raggiunte dai suoi componenti, anche se la maggior parte di essi, appartenendo alla borghesia, non sempre riuscirono ad evitare errori e contraddizioni causati dalla ristrettezza di vedute o da interessi di classe. Ciononostante essa svolse un lavoro che valse a trasformare la Francia in una nazione moderna. Tra le riforme più importanti vi fu la nuova suddivisione territoriale dello Stato.
L’Assemblea pose fine al disordine derivato dalla precedente divisione territoriale, retaggio delle antiche e ormai superate divisioni fra le diverse sovranità feudali, con un ordinamento molto più semplice ed organico, che metteva sullo stesso piano tutte le regioni della Francia senza privilegiarne alcuna: la nazione venne divisa in 83 dipartimenti, a seconda delle caratteristiche geografiche, ed ogni dipartimento venne diviso in distretti, ogni distretto in cantoni e ogni cantone in comuni.
Per quanto riguardava i diritti politici, essi vennero pensati nell’interesse della borghesi, dato che la maggior parte dei membri dell’Assemblea costituente appartenevano a questa classe sociale. Essi vennero infatti attribuiti in base al censo, escludendo in tal modo dalla vita politica del paese 3 milioni di “cittadini passivi”,ossia i nullatenenti; altri 4 milioni di francesi, che pagavano all’erario un’imposta pari al valore di tre giornate di lavoro, venivano considerati “cittadini attivi”, ma potevano votare esclusivamente per l’elezione della municipalità; rimanevano infine gli elettori veri e propri, ossia tutti i cittadini che pagavano un’imposta di almeno dieci giornate di lavoro, circa 50.000 persone in tutta la Francia, che potevano votare per l’elezione dei deputati, dei membri delle assemblee dipartimentali e per l’elezione dei giudici.
Solo i più ricchi tra questi elettori, ossia coloro che potevano permettersi di pagare un’imposta pari ad un marco d’argento, vale a dire superiore di almeno cinque volte all’imposta pagata dagli altri cittadini attivi, potevano essere eletti deputati.
Le donne non avevano diritto di voto e non potevano in nessun modo essere elette.
Tutti i comuni, i cantoni, i distretti ed i dipartimenti, erano governati da amministrazioni elettive; ma poichè solo i ricchi o i benestanti potevano partecipare alle elezioni, questo equivalse a consegnare la Francia a quella che venne definita la “nobiltà del denaro”
La politica agraria
La legge relativa all’abolizione dei diritti feudali venne applicata in modo tale che limitò fortemente la portata della decisione presa dall’Assemblea il 4 agosto 1789.
Mentre vennero aboliti i diritti personali, ovvero i diritti che il contadino doveva versare in qualità di antico servo oltre ai vari privilegi ed i pedaggi, vennero invece dichiarati soggetti a riscatto i diritti che il feudatario aveva sulla terra, esattamente come se fossero maturati alla concessione del terreno al contadino da parte del feudatario-proprietario.
Si trattò quindi di una gravissima iniquità, sia perchè tali diritti erano arbitrari e imposti con l’uso della forza non meno di quelli personali, sia perchè, nel corso del tempo essi erano stati riscattati più volte; cosa ancor più grave, tale riscatto venne fissato in una misura pari a 20 volte per il diritto annuo in denaro e di 25 volte a quello in natura.
Si trattava in entrambi i casi di somme tali che pochissimi contadini erano in grado di pagare, favorendo in tal modo l’acquisizione delle proprietà da parte di grandi affittuari non coltivatori e suscitando un forte malcontento negli agricoltori, che sempre più ascoltavano con favore gli agitatori democratici.
Condizioni molto simili vennero approvate dall’Assemblea per la vendita dei beni nazionali, ovvero i terreni sequestrati alla Chiesa. Tali beni vennero messi all’asta a prezzi talmente elevati che la maggior parte dei contadini non era in grado di pagare; in alcuni casi venne concesso un pagamento rateale in 12 anni con un tasso d’interesse che si aggirava intorno al 5/6%.
In alcune zone del paese, gruppi di contadini unirono le proprie forze per acquistare grandi aziende, dividendo i terreni in parti uguali tra i contraenti, mentre in altre aree della Francia, gli agricoltori impedirono con la violenza agli speculatori di partecipare alle aste. Grazie a questi sistemi, un ristretto numero di coltivatori agiati potè acquisire una piccola parte dei beni nazionali, mentre la maggior parte di queste proprietà finirono nelle mani della borghesia terriera, suscitando ulteriore rabbia nei contadini
La questione ecclesiastica
Per risolvere parzialmente i problemi delle esauste casse dello Stato, a rischio di bancarotta, l’Assemblea deliberò la confisca dei beni della Chiesa, dichiarandoli di fatto “beni nazionali”: in cambio di questo esproprio lo Stato si assumeva le spese di mantenimento del clero secolare, anche in riconoscimento delle numerose funzioni di interesse pubblico che esso svolgeva.
Vennero sciolti gli ordini religiosi e i conventi vennero chiusi, fatta eccezione per quelli che svolgevano funzioni di assistenza o di insegnamento; il numero totale dei vescovi venne ridotto a 83, ossia uno per ognuno dei dipartimenti nei quali la Francia era ora suddivisa e, sia i vescovi quanto i parroci, vennero dichiarati elettivi da parte delle assemblee locali e dal governo; in ultimo, la gerarchia ecclesiastica venne sottoposta allo Stato, con l’obbligo di obbedire alle prescrizioni delle autorità statali.
In questo modo, la Rivoluzione realizzava in Francia quello che la Riforma protestante aveva compiuto da tempo in altri paesi: la Chiesa cattolica era ridotta nelle identiche condizioni di quella Anglicana in Inghilterra e di quelle luterane, incorporate nei rispettivi Stati e sottoposte al loro controllo.
A questa Costituzione civile del clero, essa era tenuta a prestare giuramento ed a impegnarsi ad osservarla; in realtà meno di una decina di vescovi prestarono tale giuramento, seguiti da circa la metà dei curati.
In questo modo si venne a creare fra la Chiesa francese e lo Stato una gravissima frattura della quale, in seguitò, si servì la controrivoluzione aristocratica.
Tale scissione venne ulteriormente inasprita dalle due Bolle di Papa Pio VI, la prima del marzo e la seconda dell’aprile 1791, nelle quali il pontefice condannava l’operato dell’Assemblea.
Le riforme della politica economica e finanziaria dello Stato
Il maggior merito dell’Assemblea in politica economica, fu quello di abolire le dogane ed i dazi interni, portando così alla nascita di un unico mercato nazionale con grandi vantaggi per l’economia francese.
Anche per gli scambi con l’estero vennero apportate proficue migliorie, come ad esempio l’abolizione dei monopoli, che di fatto permettevano solo ad alcune compagnie il privilegio di commerciare con determinati paesi coloniali.
Vennero abolite tutte le corporazioni di arti e mestieri e ne venne vietata la loro ricostituzione; tale abolizione venne giustificata con il principio di assoluta libertà economica di tutti gli individui.
Ma la Legge Le Chapelier, emanata nel 1791, prevedeva gravi sanzioni anche per gli operai e per i lavoranti presso le botteghe artigiane che si fossero accordati per ottenere aumenti di paga o migliori condizioni di lavoro, con il pretesto che questi comportamenti ricostituivano il monopolio sul mercato del lavoro.
Nella realtà dei fatti questa legge garantiva i datori di lavoro, contro le pretese dei lavoranti, che in tal modo erano completamente indifesi.
Il contorto ed inefficace sistema fiscale monarchico venne totalmente abolito e sostituito da un sistema basato su imposte dirette suddivise in tre differenti categorie:
– La contribuzione immobiliare, che veniva calcolata sul reddito derivante dal possesso di terreni;
– la contribuzione mobiliare, che veniva calcolata sul reddito derivante dall’affitto delle case d’abitazione;
– l’Imposta di patente, che si calcolava sugli utili derivanti dalle attività legate al commercio e all’industria.
Venne altresì abolito il sistema di appalto a privati per la riscossione delle imposte, che veniva demandato ai comuni, ai distretti e ai dipartimenti.
Questo sistema era molto più semplice e logico del precedente, ma purtroppo, l’insufficiente controllo sulle autorità locali non permise la sua coerente e completa applicazione: nonostante ciò esso rappresentava un enorme passo avanti rispetto al passato. Tra le conseguenze negative della rivoluzione in atto, vi fu una quasi totale sospensione dei pagamenti delle imposte, fatto che causò il mancato afflusso di denaro nelle casse dello Stato che presto si trovò in una gravissima difficoltà finanziaria.
Per ovviare a questa drammatica situazione vennero emessi dei buoni di debito pubblico, gli “assegnati”, ad un tasso d’interesse del 5%, che venivano garantiti sui beni nazionali; man mano che questi beni venivano venduti, il Tesoro doveva riscattare gli assegnati con i proventi delle vendite e bruciarli.
Il piano in sè aveva un senso, ma per poterlo eseguire nella giusta maniera sarebbero occorsi tempi più tranquilli.
La vendita dei beni procedeva a rilento e l’assegnato non riusciva a trovare un mercato in quanto i risparmiatori rifuggivano dagli investimenti di Stato. Per rimediare a questa situazione, l’Assemblea decise di trasformare l’assegnato da buono del Tesoro in carta moneta, la cui accettazione era obbligatoria; nel contempo ne venne aumentata l’emissione, senza controllare la proporzione con i beni nazionali realmente venduti. In poco tempo si verificò una svalutazione dell’assegnato che assunse proporzioni paurose, anche perchè nessuno provvide a bloccarne le immissioni.
Questa svalutazione portò alla rovina di tutti quei risparmiatori che avevano investito in titoli di Stato e dei lavoratori salariati, pagati con carta moneta che ogni giorno perdeva sempre più potere d’acquisto, mentre gli speculatori, sfruttando la situazione, incrementarono le proprie ricchezze.
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