« Grazie al principio dell’amore reciproco gli uomini sono destinati ad avvicinarsi l’un l’altro continuamente, e grazie al rispetto, che essi si debbono vicendevolmente, a tenersi a una certa distanza l’uno dall’altro; e se mai una di queste due grandi forze morali venisse a mancare, allora ‘il nulla dell’immoralità inghiottirebbe nelle sue fauci l’intiero regno degli esseri (morali), come una goccia d’acqua »
I. Kant, Metafisica dei costumi« Lo scandalo è la mera esistenza dell’altro. Ogni altro “occupa troppo posto” e va ricacciato nei suoi limiti che sono quelli del terrore illimitato »
M. Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo
La crisi di quei potenti sistemi concettuali, come lo strutturalismo ed il marxismo, che hanno tentato di pensare il mondo dell’uomo come un tutto unitario e coerente, ha prodotto l’idea che sia impossibile pensare la storia umana in termini di orizzonti generali di senso, e che anzi tale paradigma non rappresenti un progetto di emancipazione ma, al contrario, una gabbia che imprigiona l’uomo(1). E’ questa la scintilla che ha generato le cosiddette etiche pubbliche (o pratiche), che si presentano “socraticamente” come un discorso sulla società non esterno ad essa, come un dibattito coinvolgente non solo e non tanto il puro specialista ma la società nella sua interezza, con l’ambizione e la speranza di pervenire ad una regolamentazione comportamentale condivisa e consapevole dell’uomo nel mondo, anche dopo il tramonto dei grandi sistemi di filosofia della storia.
Il movimento della cosiddetta riabilitazione della filosofia pratica, nato in Germania agli inizi degli anni Sessanta con la formula di Rehabilitierung der praktischen Philosophie, si connota come un movimento di rinascita dell’interesse filosofico per le tematiche della morale, del diritto e della politica, affrontate da una prospettiva alternativa rispetto sia a quella tecnico-scientifica che a quella metafisico-trascendentale(2). Per superare il relativismo ed il pluralismo etico della moderna società, globalizzata e policentrica, il movimento della Rehabilitierung rifiuta sia il modello della razionalità tecnico-scientifica (avvalendosi in ciò delle argomentazioni della prima Scuola di Francoforte) con il suo “divisionismo etico”(3), sia quello metafisico con la sua lontananza dagli ambiti della vita pratica (a partire dalla sua pretesa fondazione trascendentale), volgendosi invece alla ricerca di un modello di razionalità che, conciliando l’ethos con il logos (quindi né tramite una ratio calcolante e strumentale, né tramite la fede in ciò che risiederebbe prima e/o oltre la vita pratica), possa fungere da guida per l’azione.
Hans-Georg Gadamer può essere considerato il padre putativo della Rehabilitierung(4), anche se quest’ultima non deve essere considerata come un movimento unitario, bensì come un generale ambito di riflessione, all’interno del quale si trovano molteplici teorie, fra le quali, una delle fondamentali è costituita dall’etica comunicativa o del discorso, elaborata da Karl-Otto Apel e (soprattutto) da Jürgen Habermas. Se l’ermeneutica filosofica di Gadamer si richiama al paradigma filosofico del “neoaristotelismo” (da Aristotele infatti Gadamer trae la distinzione fra la phrónesis e l’epistème, il sapere morale e quello teoretico), l’etica della comunicazione di Habermas si rifà a quello del “postkantismo” (da Kant infatti Habermas mutua il progetto di un’etica svincolata dalle peculiarità del contesto dell’agire), se il metodo ermeneutico gadameriano si esercita nell’immediatezza della situazione, il metodo discorsivo habermasiano si basa su regole generali che precedono l’azione, se Gadamer può essere considerato “contestualista”, in quanto sottolinea il carattere storico di una ragione che non esiste mai allo stato puro ma solo nelle impurità e nelle particolarità delle diverse tradizioni linguistiche, Habermas lo si può considerare “universalista”, poiché insiste sul valore decontestualizzante della comunicazione linguistica e sulla sua relativa capacità di superare i condizionamenti situazionali. Per descrivere in cosa consista l’etica del discorso, con il suo proposito di fondazione razionale dei principi dell’agire, lo stesso Habermas ne traccia il profilo, definendola come deontologica, cognitivistica, formalistica ed universalistica.
« Che cosa vuol dire etica del discorso? In via preliminare vorrei illustrare il carattere deontologico, cognitivistico, formalistico ed universalistico dell’etica kantiana […] I giudizi morali chiariscono come i conflitti d’azione si possono risolvere sulla base di un accordo razionalmente motivato. In senso lato, essi servono a giustificare le azioni alla luce di norme valide o la validità delle norme alla luce di principi degni di essere riconosciuti […] A questo riguardo parliamo di un’etica “deontologica”. Questa intende la giustezza delle norme o dei comandi in analogia con la verità di una proposizione assertoria […] In questo senso noi parliamo anche di un’etica “cognitivistica”. Questa deve poter rispondere alla domanda sul modo come si possano fondare le asserzioni normative […] Sotto questo aspetto, noi parliamo di un’etica “formalistica”. Nell’etica del discorso il posto dell’imperativo categorico viene preso dal procedimento dell’argomentazione morale […] “Universalistica”, noi chiamiamo, infine, un’etica la quale sostiene che questo principio morale (o uno simile) non solo esprime le intuizioni di una determinata cultura o di una determinata epoca, ma vale universalmente(5) »
Quindi, l’etica comunicativa riconosce nel discorso lo strumento al quale si deve fare riferimento per dirimere i conflitti morali, attraverso un accordo che legittimi l’esistenza di norme universali, accordo di comprensibile importanza capitale nelle discussioni di carattere etico. A ciò Habermas approda riformulando i passaggi fondamentali del pensiero morale kantiano, svincolandolo da ogni possibile riferimento metafisico, cosicché il discorso possa essere accessibile a tutti e le norme possano essere verificate da chiunque(6):
« Da questa prospettiva anche l’imperativo categorico deve venir riformulato nel senso proposto. Invece di prescrivere a tutti gli altri come massima valida quella di cui io voglio che sia una legge universale, io devo proporre a tutti gli altri la mia massima allo scopo di verificare discorsivamente la sua pretesa di universalità. Il peso si sposta da ciò che ciascuno (singolo) può volere senza contraddizione come legge universale a ciò che vogliamo di comune accordo riconoscere come legge universale(7) »
In tale modo, la Diskursethik soddisfa le “pretese di validità” (Geltungsansprüche) delle conclusioni alle quali si approda attraverso una discussione ragionevole (ovvero razionalmente sensata); in altri termini, per tale via si può giungere alla costituzione di una tavola di valori condivisi, originanti la cosiddetta “opinione pubblica”. Quest’ultima, nella modernità, nasce nella sfera pubblica borghese che, differentemente da tutte le precedenti impostazioni sociali, affonda le proprie origini nella libera circolazione delle merci e delle notizie: così come la libera circolazione di merci e notizie è un processo che non esclude potenzialmente nessuno, allo stesso modo la formazione dell’opinione pubblica in una società (quella borghese) basata su tale processo, non esclude potenzialmente nessuno (diversamente sia dal mondo greco antico che da quello che va dall’impero romano alla rivoluzione francese, nei quali la sfera pubblica è accessibile, rispettivamente, solo ai cittadini liberi e solo agli esponenti di determinati ceti). Ora, tale libera circolazione di merci e notizie pone il peculiare problema, nuovo, di dover essere amministrata, ma, se è da questa circolazione che sorge l’opinione pubblica, allora amministrare tale circolazione vuol dire amministrare la stessa opinione pubblica. Ed infatti, nasce così un’amministrazione stabile, sottoforma di una attività statuale continuativa: questo è, difatti, il ruolo del potere pubblico borghese, al punto tale che, nella modernità, il termine pubblico diviene sinonimo di statuale. Lo statuale rappresenta quindi il soggetto amministrante la circolazione delle merci e delle informazioni, ma dove tale circolazione è localizzata? In quale dimensione ha luogo? Nella società civile. Ecco perché, solo nella modernità
« Come pendant dell’autorità si costituisce la società civile […] Nella trasformazione dell’economia tramandata dall’antichità in economia politica si riflettono i mutati rapporti »(8)
Avviene così quella dinamica (già descritta da Hannah Arendt in Vita activa) in base alla quale un potere pubblico che amministra la società civile (intesa come la sfera dei privati), eleva a questione di pubblico interesse la riproduzione della vita, portando quindi tale problematica al di là dei limiti della sfera domestica privata:
« Mentre la vita privata si pubblicizza, la sfera pubblica, a sua volta, assume forme di intimità […] (poiché) la società contrappostasi allo Stato da un lato delimita chiaramente un ambito privato nei confronti del pubblico potere, dall’altro, però, eleva a questione di pubblico interesse la riproduzione della vita, oltre i limiti di un potere domestico privato […] A questa sfera privata, divenuta pubblicamente rilevante, della «società civile» allude Hannah Arendt, quando caratterizza, diversificandolo dall’antico, il moderno rapporto della sfera pubblica con quella privata, mediante lo sviluppo del «sociale» »(9)
Ora, ciò che Habermas vuole evidenziare, è che la strutturazione delle regole funzionali alla amministrazione della società da parte del potere pubblico, avviene attraverso una modalità senza precedenti: la pubblica argomentazione razionale. Anche se è noto che questo è già il tipico modo di fare politica delle pòleis, l’originalità rilevata da Habermas risiede (oltre che nella diversità del concetto e dei contenuti della politica fra l’antichità e la modernità) nel fatto che in tutte le epoche precedenti a quella borghese la dimensione politica, quella in cui si forma l’opinione pubblica giuridicamente rilevante in quanto produttrice di leggi, non è accessibile a tutti gli uomini, ma solo a quelli che possiedono determinati requisiti (come la libertà nell’antica Grecia e l’appartenenza ad un certo ceto nelle epoche successive), in base ai quali assumono lo status di cittadini, mentre, con la società borghese, la politica diviene potenzialmente accessibile ad ogni uomo che, per il semplice fatto di essere tale, è allo stesso tempo un cittadino: prima dell’avvento della società borghese si è un semplice uomo o un cittadino, dopo si è un uomo e un cittadino. Non potrebbe essere spiegato altrimenti il fatto che solo nella società borghese ogni individuo è, almeno in teoria, libero di muoversi dalla dimensione della società civile a quella della politica, e viceversa: «Alla separazione tra Stato e società corrisponde “la scissione dell’uomo (bourgeois) in uomo pubblico (citoyen) e in uomo privato (homme)”»(10).
Tuttavia, nella modernità mancano spesso e palesemente le condizioni economiche, sociali e culturali, in virtù delle quali ciascun uomo possa essere, di fatto e non solo formalmente, anche un cittadino (veste, quest’ultima, che rimane così solamente “ufficiale” ed “ornamentale”), e tali condizioni vengono a mancare non solo a causa di determinati rapporti di forza nella (ri)produzione della vita (poiché la nostra è «una società mondiale contraddistinta da una distribuzione estremamente ingiusta delle chances di vita»(11)), ma anche (e forse soprattutto) a causa della cosiddetta cultura di massa(12), che si manifesta attraverso quei fenomeni di mercificazione della cultura, di conformismo sociale, di marketing politico, di manipolazione delle opinioni, d’indottrinamento sistematico di nuovi valori, già approfonditamente colti e descritti dalla prima Scuola di Francoforte. Per tal via, l’accesso, potenziale, alla politica è reso, di fatto, impossibile e/o non attraente: l’uomo è esplicitamente impedito e/o latentemente reso disinteressato a divenire un cittadino, è privato delle possibilità concrete e/o delle motivazioni necessarie per decidere responsabilmente tra opzioni con conseguenze prevedibili. Tuttavia, poiché uno dei tratti determinanti della modernità è quello, derivante dalla rivoluzione francese, in base al quale ciascun uomo è depositario del diritto/dovere di non essere un mero “consociato” (ovvero, colui che gode della protezione della legge, ma non del diritto di legislazione, di elaborazione della stessa(13)), anche l’uomo disinteressato al suo status di cittadino è periodicamente chiamato ad esprimere le proprie opinioni politiche che, a causa dell’impossibilità d’accesso alla e/o del disinteresse per la e/o della manipolazione delle informazioni sulla politica stessa, non risultano essere il frutto di una riflessione critica, ma l’esito artificioso prodotto da determinate forze dominanti. In questo modo, l’opinione pubblica degenera da strumento di liberazione ad istanza di conformismo ed oppressione. Questo è ciò che avviene quando l’autocoscienza politica dei cittadini non dispone più di un luogo nel quale poter dare vita ad un’autentica comunicazione pubblica, questo è ciò che avviene quando accademie, università, musei, teatri, ecc. vengono spogliati della loro veste di “infrastrutture culturali”, ed assoggettati ai modelli del mercato. Si assottiglia, così, «quel cuscinetto politico-culturale su cui lo Stato di diritto democratico deve essere poggiato per rimanere stabile»(14). Dinamica, questa, che dalle società occidentali sta contagiando quelle orientali, sempre più tese ad emulare le prime, e descritta da Habermas con il termine di “rivoluzione recuperante”(15). Tale termine, per il pensatore francofortese, sta ad indicare la diffusione su scala planetaria di una cultura industriale (mossa unicamente da logiche economiche), figlia del razionalismo occidentale, con effetti omogeneizzanti, visibili tramite l’irrigidimento di determinati stili di vita ed il conseguente blocco della capacità d’immaginazione rivolta al futuro, al punto tale che, l’unica operazione concettuale che gli individui riescono a portare avanti è quella del recupero nel presente degli elementi già esistenti nel passato. In altri termini, assistiamo ad una irresistibile inclinazione a recuperare i modelli del passato come schemi interpretativi del presente e, soprattutto, del futuro, a vedere, cioè, “il passato come futuro” anziché “il passato per il futuro”. Ma, nonostante che quella della rivoluzione recuperante sia una problematica derivante dall’estremizzazione della ratio illuministica (già notoriamente messa sotto accusa, per primi, da Max Horkheimer e Theodor W. Adorno nella Dialettica dell’illuminismo), ciò non significa che la ragione stessa debba essere depotenziata, al contrario, solo un supplemento di ragione può combattere le problematiche provocate da una razionalità distorta, in quanto viziata da logiche calcolanti e strumentali. Per questo, si può considerare l’etica del discorso come l’esito della
« ricerca delle tracce di una Ragione che unifichi senza annullare le distanze, che colleghi senza dare lo stesso nome a cose diverse, che tra estranei renda riconoscibile ciò che vi è in comune, ma lasciando all’altro la sua alterità […] (ma ciò non è possibile) se ci lasciamo semplicemente trascinare nel vortice di atmosfere da fine del mondo invece di farci ammaestrare dai nostri sentimenti […] Ciò di cui abbiamo bisogno sono più pratiche fondate sulla solidarietà; senza di ciò, anche l’agire intelligente rimane privo di fondamento e senza conseguenze. Tali pratiche, tuttavia, da parte loro necessitano di istituzioni razionali, di regole e forme di comunicazione che moralmente non esigano troppo dai cittadini e, anzi, richiedano loro con moderazione il tributo della virtù orientata al bene comune […] Io penso che l’approccio della teoria del discorso possa dare buoni frutti non solo per la morale, ma anche per il diritto e la politica. Così quella della democrazia diventa la questione della istituzionalizzazione di procedure e di circuiti di comunicazione che rendano possibile una formazione più o meno discorsiva della volontà e dell’opinione »(16)
La ragione, quindi, può (e per Habermas deve) avere una funzione normativa “filtrata” dai sentimenti e portata avanti dalla e nella comunicazione; tuttavia, nella modernizzazione occidentale, questa funzione è formalmente riconosciuta alla ragione in campo morale, e di fatto disconosciuta in quello giuridico, politico ed istituzionale, nei quali determinati valori (fra i quali svettano il denaro ed il potere) sono stati affrancati dalla ragione ed inseriti in una dimensione delinguistificata, guidata da una logica efficientista. Tale logica si autolegittima attraverso una determinata industria della comunicazione (che comprende tanto l’industria dell’intrattenimento quanto quella dell’informazione), che non solo esprime, ma soprattutto produce valori morali e regole giuridico-politiche preconfezionate, sottraendole, quindi, a processi di formazione tramite discussione. Questa sembra essere la zona d’ombra della teoria dell’agire comunicativo: l’etica del discorso può darsi in maniera autentica solo se in una comunità, i processi decisionali discorsivi non siano né fisicamente impediti, né psicologicamente inibiti, né in alcun modo manipolati, insomma, solo se l’individuo conserva quella libertà materiale ed intellettuale che gli è oggi in larga parte negata; viene altrimenti a mancare la condizione di possibilità par excellence di un “buon esito” dell’agire comunicativo: la libertà dei parlanti. Inoltre, bisogna tenere presente che anche nel caso di una perfetta pratica dialogica, esisteranno sempre posizioni inconciliabili, valori non discutibili, di fronte ai quali non si può fare altro che prenderne atto, riconoscendo da parte di tutti ciò che viene incondizionatamente difeso da ciascuno; pertanto, un regime democratico deve garantire non solo l’esistenza di uno spazio pubblico di confronto, ma anche quella della sfera delle libertà personali, una sfera nella quale ciascuno cura ciò che per lui non è negoziabile: «Un processo democratico non approda (solo) alla formazione di una volontà generale, ma (anche) al riconoscimento dell’area della libertà di ciascuno»(17) (in tale prospettiva, liberalismo e comunitarismo rappresentano, rispettivamente, l’estremizzazione del secondo e del primo dei due poli di quel processo democratico).
1) Cfr. J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981 e J.-F. Lyotard, Il post moderno e la nozione di “resistenza” (intervista del 09/05/94 presso l’Istituto Italiano di Cultura di Parigi), in Rai Educational, Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, www.educational.rai.it, e, per una visione d’insieme, G. Patella, Sul postmoderno, Studium, Roma 1990, e D. Tarizzo, Il pensiero libero, Cortina Milano 2002.
2) Cfr. J. Habermas, Morale Diritto Politica, Comunità, Milano 2001. Per un primo approccio orientativo cfr. AA. VV., «Fenomenologia e società», n. 2, 1988 (monografia intitolata Verso un’etica pubblica), R. Bernstein, La nuova costellazione, Feltrinelli, Milano 1994, W. Privitera, Il luogo della critica, Rubbettino, Soveria Mannelli 1996, S. Maffettone, Etica pubblica, il Saggiatore, Milano 2001, e A. Honneth, Critica del potere, Dedalo, Bari 2002.
3) Il divisionismo etico è quella posizione che divide nettamente i fatti dai valori, ritenendoli appartenenti a categorie del tutto disomogenee, tra le quali non sussiste alcun rapporto: i fatti sono oggetti del conoscere e quindi della scienza, i valori appartengono invece all’ambito delle scelte e delle preferenze soggettive. Il divisionismo etico risale all’empirismo di David Hume (si veda la “legge di Hume”, di George E. Moore) e, più recentemente, alla sociologia avalutativa di Max Weber.
4) Cfr. H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, 2 voll., e H. G. Gadamer, Il problema della coscienza storica, Napoli, Guida 1974.
5) J. Habermas, Si addicono anche all’etica del discorso le obiezioni di Hegel contro Kant?, in W. Kuhlmann (cura), Teoria della morale, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 7-9.
6) Per raggiungere una “situazione discorsiva ideale”, in grado cioè di coinvolgere tutti gli interessati, è altresì necessario che il dialogo si insaturi al livello delle “narrative contingenti”, sempre in fieri, delle quali ciascun uomo è depositario e portatore.
7) J. Habermas, Etica del discorso, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 76; sull’argomento cfr., A. Fabris, Etica del discorso, Carocci, Roma 2006, e U. Steinhoff, Kritik der kommunikativen Rationalität: eine Darstellung und Kritik der kommunokationstheoretischen Philosophie von Jürgen Habermas und Karl-Otto Apel, Mentis, Paderborn 2006.
8) J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Bari 1971, p. 32.
9) Ibidem, pp. 190, 38 e 32, parentesi mia; su ciò cfr. Genesi della sfera pubblica borghese, in Ibidem.
10) Ibidem, p. 151, parentesi mie.
11) J. Habermas, Dopo l’utopia, Marsilio, Venezia 1992, pp. 8-9, è infatti palese che «Il mondo in cui viviamo è allo stesso tempo notevolmente comodo e assolutamente povero […] La contemporanea presenza di opulenza e agonia nel mondo che abitiamo rende difficile evitare interrogativi fondamentali sull’accettabilità etica dell’organizzazione sociale prevalente», A. Sen, Globalizzazione e libertà, Mondadori, Milano 2002, p. 11.
12) «La cultura di massa deriva infatti il suo nome equivoco dal fatto che l’allargamento della diffusione viene raggiunto con l’adattamento alle esigenze di distensione e di distrazione di gruppi di consumatori di livello culturale relativamente basso e senza invece preoccuparsi di educare il vasto pubblico a una cultura sostanzialmente integra […] La cultura si trasforma in merce non solo secondo la forma, ma anche secondo il contenuto, lascia cadere alcuni elementi, la cui ricezione presuppone un certo apprendistato, grazie al quale l’appropriazione “consapevole” accresce a sua volta la consapevolezza. Non già la standardizzazione come tale, ma quel particolare precondizionamento dei prodotti che conferisce loro piena fruibilità, cioè la garanzia di poter essere recepiti senza rigorose premesse e, ovviamente, senza tracce durevoli, pone la commercializzazione dei beni culturali in un rapporto inverso rispetto alla loro complessità […] l’area di risonanza di un ceto colto educato all’uso pubblico della ragione è compromessa; il pubblico è diviso fra minoranze di specialisti che discutono in modo non-pubblico e la grande massa dei consumatori che recepiscono pubblicamente», J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, cit., pp. 198-199 e 209; in sintesi, l’area di coloro che discutono pubblicamente di argomenti pubblicamente rilevanti subisce una mutilazione sia quantitativa (poiché molti sono impossibilitati o disinvogliati a partecipare a tale discussione) che qualitativa (per l’abbassamento culturale dei concetti e dei termini con i quali si trova ad avere a che fare chi desidera partecipare al dibattito).
13) Non a caso, la Dichiarazione dei diritti del 1789 è rivolta sia all’uomo che al cittadino.
14) J. Habermas, Dopo l’utopia, cit., p. 48
15) “Rivoluzione recuperante” è la traduzione letterale di Die nachholende Revolution, titolo di un volume di Habermas tradotto in italiano come La rivoluzione in corso, Feltrinelli, Milano 1990.
16) J. Habermas, Dopo l’utopia, cit., pp. 121, 96, 99 e 128, parentesi mia; cfr. anche, dello stesso autore, La costellazione postnazionale, Feltrinelli, Milano 2002.
17) A. Touraine, Libertà, uguaglianza, diversità, il Saggiatore, Milano 2002, p. 264, parentesi mie.
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